Giulio Candiolo esce in libreria con un delizioso romanzo, ritratto neo-realista di una generazione di sessantottini vissuti ai margini della rivoluzione, anche in senso geografico.
I suoi Romani di mare (Rosabianca Edizioni) sono ragazzi “nati su un lembo di terra limacciosa”, “figli di una lupa minore e di un impero distante chilometri”. Pallina, Richetto e Giuggio da bambini suggellano la loro amicizia per la vita con uno sputo e una stretta di mano, davanti a “due gazzose e un chinotto”. Cresciuti a Ostia, dove il mare trasporta la salsedine e lo iodio nell’aria, non respireranno però appieno l’aria dei tumulti del Sessantotto, perché “la rivoluzione, la politica so’ cose da ricchi”. I semi del cambiamento in atto, sull’onda delle idee di Lenin e Trockij, sembrano non poter germogliare nel loro terreno esistenziale. Eppure, lo Zeitgeist del movimento, con i suoi momenti di auto-coscienza collettiva, si manifesta nell’urgenza dei protagonisti di dialogare, sapere, comunicare. “Dovemo da parlà” ripetono tra loro, scandendo i tempi di una narrazione autentica e sofferta, che è insieme confessione necessaria e verità temuta. Il flusso di coscienza – in cui si rintraccia la lunga esperienza dello scrittore come terapeuta – si fa così racconto corale di una generazione che ha sperimentato la vetta del sogno e l’abisso della delusione.
Sensibile e acuto, Giulio Candiolo è l’autore di un romanzo dove il singolo, in cerca di salvezza da sé stesso e dalla propria epoca, la trova nella relazione con l’altro, consapevole che “ a volte nasci incudine, a volte martello, il più delle volte sei er ferro che sta ner mezzo”.
Giulio Candiolo, chi sono i Romani di mare?
GC: Ricordo che da ragazzi la primavera si mostrava luminosa, esplicita. In quei primi giorni di sole pieno, con quel primo calore di aprile che spazzava via l’inverno piovoso, ecco, noi ragazzi saltavamo la scuola, facevamo sega, e da Ostia ce ne andavamo in giro per le vie e per i parchi di Roma. Io avevo una passione per il Pincio, lì spesso si incontravano le ragazze dell’accademia di Belle Arti di via Ripetta, dai capelli sciolti e le gonne svasate, belle, sempre allegre, con in mano fogli e matite a ritrarre fiori, alberi e foglie. “Di dove sei”, mi disse un giorno una di loro, capelli lunghi crespi e occhi verdi, “di dove sei …”. Eravamo seduti su una panchina e avevamo appena fatto amicizia. “Sono di Ostia”, rispondo. “Uhm, Ostia, sei un romano di mare …”.
L’intonazione mi colpì profondamente. “Romano di mare”, devo aver pensato, “di questa frase ne farò qualcosa”. I “romani di mare” sono in effetti una specificità, cittadini dell’Impero eppure ripudiati dalla Lupa. Sempre estranei, costantemente al di fuori, forestieri nella propria città, visti e menzionati solo quando ci sono da raccontare eventi drammatici, storie violente, fatti brutali. Faccio un esempio, a Ostia per anni io e altri abbiamo portato avanti una delle esperienze artistiche tra le più interessanti e innovative d’Italia, la costruzione di un progetto di gestione teatrale davvero alternativo, orizzontale, democratico, nato dalla seria collaborazione tra istituzioni pubbliche e strutture creative territoriali private. Nessuno però parla mai dell’esperienza chiamata “Teatro del Lido”, un evento “lungo da venire e troppo breve da dimenticare”, per citare Venditti, e che avrebbe portato sul territorio di Ostia tra i primi dieci anni del duemila, i più grandi artisti del mondo. Nessuno parla di un quartiere che tra il duemila e il duemiladieci aveva aperto almeno sette teatri, tutti fortemente attivi e impegnati. Nessuno ricorda che avevamo costituito un’isola di buone prassi, un network esteso, una rete virtuosa fatta di associazioni culturali, cooperative, centri socio- sanitari pubblici e privati, luoghi di aggregazione giovanile, spazi creativi, biblioteche e scuole innovative, tutti inseriti all’interno di progetti volti all’emancipazione coscienziale, alla salvaguardia dell’unicità della persona e alla tutela di un territorio fisico ed esperienziale di per sé senza uguali.
Ostia per il main stream è prevalentemente violenza e disperazione e i suoi abitanti complici o vittime. Un destino assai pesante. Chi sono i “romani di mare”: una strana, complessa etnia, dimenticata, confinata tra mare e pineta, priva di vera attenzione e di una voce sincera, in grado, non di difenderla, ma di raccontarla. Con molta modestia e tanto amore, ho provato a farlo io.
I personaggi del suo romanzo hanno un urgente bisogno di parlare, raccontare, “ricomporre i frammenti” per rimanere in vita. Quanto di questo deriva dalla sua esperienza di psicologo?
GC: Ho sempre amato ascoltare storie, leggere storie, immaginare e immaginarmi all’interno di storie. Ho passato serate intere a seguire le voci narranti dei miei parenti, che annegati dentro un bicchiere di vino annacquato, sospiravano frammenti di vita, esistenze tradite, incastrate a forza tra guerra e speranza. Raccontare, ricordare, non dimenticare. Raccontare è quanto serve per rimanere in vita, per non essere dimenticarti, per sentirsi visti. Questo in effetti è ciò che fanno i personaggi del mio libro, si raccontano, bisognosi di sentirsi parte necessaria di una storia più grande, di un potente flusso vitale. A pensarci bene, più in generale, questo è quanto proviamo a fare noi viventi, sempre alla ricerca di un senso del vivere, di una certezza dell’esistere, provati come siamo dallo sforzo titanico di dare una collocazione possibile a esperienze spesso dolorose, inconsce, evocative, incomprensibili, per inserirle in una dimensione coerente, accettabile, possibile. Solo così, grazie alla parola che si fa relazione, il dolore diviene storia, si fa racconto, proteggendoci dalla violenza persecutoria della solitudine e della depressione.
Psicologia e scrittura hanno un ruolo determinante nella mia vita, anche se, e mi prendo la responsabilità di quello che dico, la nuova psicologia, la moderna psicologia, non ama le storie, non ha bisogno di storie da ascoltare. É un sistema verticistico, di potere, che necessita di disagiati, di fuoriusciti dal sistema da reinserire presto e al meglio nel turbine di scambi e transazioni che chiamiamo contemporaneità, lo spazio ipotetico, cinico, privo di cornice e regole certe, entro il quale ognuno di noi ha perduto quel valore intrinseco che appartiene da sempre agli esseri umani, quello di un ente in evoluzione culturale e spirituale, unico e irripetibile. Ciò che di contro abbiamo acquisito è il senso svilito di coseita’, lo status di consumatori, sempre meno consapevoli, di cose inerti, di oggetti, noi stessi divenuti oggetti da consumare, da abbandonare, con tanto di prezzo e scadenza. La mia psicologia, il mio essere terapeuta, è fortemente poggiato su antichi e solidi registri di dialogo e confronto. Un sistema obsoleto, me ne rendo conto, ma a dispetto di tutto, io guardo all’uomo, alle sue narrazioni catartiche, esploro gli spazi onirici, la dimensione simbolica, la visione archetipica, il mito e le sue ritualità. Ma soprattutto, sopra ogni cosa, al di là di ogni scuola di pensiero, io sostengo l’urgenza di narrazione, il bisogno umano di rappresentarsi attraverso la parola, attraverso la scrittura, il suono, il segno, il corpo. Ecco allora che il racconto di una vita, ritrova il suo reale valore, si fa metastoria, vive con dignità in un territorio di confine, figlio di molti linguaggi, di molte provenienze emotive. Fin da ragazzo sapevo che avrei vissuto a metà strada tra arte e terapia, e così è stato, scrivo storie, ascolto storie, io stesso mi sento storia e storie.
Lei fa spesso uso del romanesco nei dialoghi. È per un’esigenza stilistica o per dare maggiore spessore ai personaggi?
GC: Mia nonna Elena è nata a Roma, sotto l’ombra del Cuppolone, a Borgo Santo Spirito, romana di sette generazioni. Con nonna Elena, piccola e regale, facevamo delle belle passeggiate sul lungomare di Ostia. Le sue amiche, incontrandola durante le passeggiate le dicevano “a E’, pure noi semo de Roma, semo de Trestevere”, e nonna, senza scomporsi, con quella faccia da bambina impunita, rispondeva “ah, sete de fori”, cioè, siete di fuori, siete nate ai di là delle mura, oltre San Pietro, che per lei voleva dire fuori Roma. Da lei ho appreso l’amore per il mio idioma.
Da allora la mia vita è ricca di parole, suoni e musica dialettale. Il romanesco è il dialetto della mia famiglia, dei miei zii, dei miei amici. Il dialetto è il suono rassicurante della voce di mia madre. È la lingua del “barcarolo romano che va contro corrente”, di Petrolini, di Alberto Sordi.
Da ragazzo comprai il libro di uno scrittore di cui poco sapevo ma che avevo visto a terra, sdraiato, esanime, riposto malamente sotto un telo bianco di un campetto di calcio all’Idroscalo di Ostia. Lo scritto, meraviglioso, provocatorio, irriverente, si intitolava “Ragazzi di vita”, e quell’uomo, il mio maestro virtuale, era Pier Paolo Pasolini. Grazie a lui mi sono sentito finalmente visto, grazie al poeta di Casarsa ho imparato ad amare il mio modo di parlare, ad apprezzare il mio modo di esprimermi, grazie a lui, primo tra gli intellettuali, coraggioso e vero, ho sentito che anche noi, esseri cresciuti ai margini del mondo possibile, alla periferia di un centro senza anima, anche noi, avevamo un senso nell’economia dell’esistere.
Il romanesco è la lingua di Accattone, di Mamma Roma, di Anna Magnani. Come tutti i dialetti, il mio idioma ha una modalità espressiva intensa, senza mediazioni, assolutamente vera, questo l’ho appreso da Pasolini, ma anche da Pavese, da Silone, da Carlo Levi. Ne ho fatto così la cifra stilistica, la forza espressiva, la capacità ammiccante e coinvolgente del mio romanzo, dei miei personaggi, ma, oltre a ciò, utilizzando questa modalità narrativa così intensa, diretta, ho voluto mostrare al lettore quella che chiamerei, oltre la storia, l’anima in controluce degli interpreti, la loro appartenenza emozionale e affettiva a un luogo non necessariamente fisico. E assieme a questo, far percepire ai lettori di “Romani di mare” il retaggio genealogico, il senso della tradizione, la provenienza culturale dei personaggi e quindi la mia. Amo il dialetto, che è la parte più autentica e vera di un gruppo sociale, ogni elemento intorno a noi è il solidificarsi di concetti e pensieri espressi nella lingua madre, l’ambiente esperienziale è quindi un condensarsi di suoni del proprio dialetto.
Il mio prossimo libro è ambientato in Salento, una terra assai complicata dove ho scelto di vivere buona parte dell’anno. Sto imparando il loro idioma, il loro dialetto, mi è necessario per raccontare in profondità, in verità e con estrema sincerità ciò che vivo e che sento.
L’ambientazione invece, che ruolo ha? E perché cita Ostia solo nelle ultime pagine?
GC: Come dicevo, la mia famiglia, da parte di madre, arriva a Ostia dal centro di Roma, da Borgo. Mia nonna, “borghiciana” doc, innamorata di Piazza delle Vaschette, devota alla Madonna della Traspontina, si riparava da bambina all’ombra di San Pietro, protetta dal Passetto che avrebbe messo il Papa e tutti i popolani di Borgo, al sicuro dentro Castel Sant’Angelo. Nessuno avrebbe avuto la forza di strapparla da lì, solo la storia c’è riuscita.
Gli accadimenti storici hanno avuto la meglio su tutti. I Patti Lateranensi, suggellati in alto, scritti da freddi governanti, come diceva Trilussa “pe’ quer popolo cojone risparmiato dar cannone”, hanno prodotto via delle Conciliazione e oltre a ciò, una serie di eventi a catena. Smantellare Borgo San Spirito ha significato infatti spostamenti ingenti di famiglie e destini. Nonna per i figli ha scelto il mare, Ostia, un piccolo borgo fatto di case in stile art decò e pregiati bagni marini, il mare di Roma. Per decenni ci siamo ritrovati in pochi bellicosi nuclei familiari, sparuti e parenti. Poi il boom e l’imponente incremento demografico.
Ostia è per me casa e senso di colpa, è passione e scuola di vita. Territorio di sfide culturali, di fallimenti e di redenzione. Ostia è pelle e maledizione, raccontare Ostia mi è parso doveroso, necessario, obbligatorio. Ho provato per pudore e per senso di protezione a non nominarla, ho cercato di proteggere lei e forse anche me da fantasmi e dagli acciacchi dell’anima. Ho provato a tenerla al sicuro, poi ho compreso, forse è lei che mi ha parlato, che mi ha permesso di farlo. Non è opportuno rimanere con debiti inevasi e crediti non riscossi. Ostia è casa mia, è un racconto che non può finire, Ostia è da millenni un porto d’approdo, di arrivi e partenze, il luogo in cui muore Santa Monica e si converte Agostino. A Ostia trova casa mio padre, che sceso dal Veneto negli anni sessanta in cerca di opportunità, trova lavoro, moglie e una vita possibile. Sono grato a Ostia per avermi dato terra buona e acqua di mare, per avermi cresciuto nel suo ventre generoso e avermi dato il permesso di andare via. I personaggi del libro sono figli di questo sentire, e come figli ribelli, amano e al contempo soffrono il senso di appartenenza, la mancanza di libertà presunta. Eppure liberi si è quando si sa da dove si proviene.
Romani di mare è anche una storia di emozioni: paura, nostalgia e soprattutto un tradimento lacerante. Ha inteso descrivere quello della generazione del ’68?
GC: Pallina, Richetto e Giuggio, i tre protagonisti del libro, sono figli di una stagione quanto mai ricca e complessa. Gli anni sessanta, data d’inizio della storia, portano in sé un vento di cambiamento. La tragedia militare è alle spalle, gli orrori della seconda guerra mondiale lasciano il posto alla speranza, alla rinascita, all’amore. Un nuovo mondo è possibile, è tempo di ricostruire, di ricominciare, così sussurra Romoletto, appena ritornato dalla drammatica campagna di Russia. I tre amici, figli di questi anni e di questi sentimenti, figli dei figli della guerra, rappresentano il sogno di un mondo nuovo o forse l’illusione di poter vivere in un mondo libero.
“Romani di mare” è un libro scritto in punta di emozioni, e proprio le emozioni, i sentimenti, le speranze, aggiungerei l’amore, rappresentano il collante, la malta che tiene unita la trama del libro, anche quando le speranze vengono rapidamente infrante, quando i sogni di gioventù cadono e si fanno disperazione, quando le ideologie si rivelano miseri inganni.
Paura, nostalgia, tradimento lacerante, sono parole azzeccate per descrivere un’epoca che ho conosciuto bene. Gli esseri umani non decidono, non sono in grado di cambiare le condizioni o gli scenari disegnati attorno a loro, gli esseri umani vivono, lottano, soccombono e di nuovo si rialzano, sconfitti, eppure nella loro sconfitta, vincitori. Io di certo, come i miei personaggi, provo nostalgia per un mondo che aveva altre regole, altre connessioni, differenti intenzioni, non a caso il libro si ferma a ridosso degli anni novanta, poco prima delle caduta del muro di Berlino, un attimo prima che la nostra vita cambiasse di nuovo e trasformasse tutti noi in compratori di merci inutili.
Per quanto riguarda il riferimento al sessantotto e al tradimento subito da una generazione che avrebbe in termini freudiani, preso il potere, probabilmente trasformato un paradigma, modificato un sentire: il cambiamento in questo mondo, non è contemplato, è permesso lottare ma non cambiare. Forze oscure si muovono a difesa di interessi non soltanto economici. Personalmente non credo a un mondo che all’unisono si trasforma e modifica il proprio stato. Le rivoluzioni non sono mai oneste. Un cambiamento di stato, mentale e coscienziale è un’esperienza personale, profonda, interiore, e ognuno può farlo solo per sé. Il cambiamento ha a che fare con l’analisi autentica di contenuti irrisolti, mediante l’accesso coraggioso a spazi inconsci di interrogazione. Dal dolore si apprende, dall’amore si prende. L’incontro con il dolore ci fa crescere e ci differenzia. Accettare il senso della propria responsabilità riguardo gli eventi prodotti e gli accadimenti occorsi, ci rende unici e centrati. Il processo di crescita, ribadisco, è decisamente personale, intimo, lacerante.
Questo è invero il percorso dei tre ragazzi, di Pallina che si troverà ad affrontare un dolore indicibile, un tradimento senza fine che taglia l’anima a metà. È il percorso di Giuggio, che deve necessariamente fare i conti con le proprie debolezze e i propri sbagli. L’accettazione della propria immaturità, la conseguente perdita di libertà e di autonomia lo renderanno finalmente consapevole e paradossalmente libero. Ma è anche il cammino del disincantato Richetto, che nel rapporto con la frustrazione e lo smarrimento, ritrova il coraggio di amare per davvero.
“Romani di mare” è una storia di riscatti e redenzione. Ogni personaggio partecipa come può, con passione e paura, a un lavoro di trasformazione, di sublimazione, e perso nella propria oscurità interiore proverà a ritrovare una via virtuosa verso la luce, verso il ritorno alla vita.
Le pagine finali ruotano proprio intorno al tema del “ritorno alla vita”. Lei dopo aver ascoltato tante esperienze – come terapeuta – e averne raccontate altrettante – come scrittore – crede che sia qualcosa di possibile?
GC: Il ritorno alla vita è di certo possibile, come ci hanno insegnato Socrate o Jung, tramite l’aiuto di un altro, amico o terapeuta, un altro da te che accompagni poco prima del bordo, sulla linea di confine tra ciò che è e ciò che sono. Verso l’Io Sono. É la relazione che salva, che ci salva. È da questa prospettiva decisamente impegnativa che si costruisce un sano rapporto con sé stessi, con l’altro, con l’ambiente che ci circonda. Grazie alla relazione, si diviene consapevoli, coscienti di essere, di sapersi, di poter agire sugli eventi. La moderna fisica quantistica, a sostegno di quanto affermo, è un processo decisamente relazionale. L’osservatore agisce sugli eventi, la sua presenza modifica la risposta, completa e migliora l’esperimento. Il ritorno alla vita si poggia sulla relazione che ci fa unici.
La scrittura, come la terapia, è un mezzo per raggiungere quella che Aristotele definiva catarsi, ossia quello straordinario fenomeno proiettivo di liberazione personale, costruito su precisi processi narrativi che favoriscono la crescita, la trasformazione interiore grazie alla rivisitazione mediata della propria esistenza. La catarsi è un processo potente, ci mette in contatto con una variegata fioritura di emozioni e con intense gradazioni cromatiche di affettività. Il teatro è catartico, come il melodramma, la scrittura, l’arte in generale, la terapia psicologica. Io vivo così, equamente diviso tra queste due tensioni, arte e terapia, tormento e estasi.
Romani di mare
di Giulio Candiolo
Rosabianca Edizioni