Oggi la scuola è al centro di un vivace dibattito, in cui non mancano confronti, talvolta sommari, con i modelli del passato, più o meno lontano.
Quando vedo i miei figli preadolescenti rincasare ed ascolto i loro racconti e le loro esperienze, non posso fare a meno di chiedermi se il percorso scolastico che stanno seguendo rifletta davvero quei valori di crescita e formazione in cui credo e che ho sperato per loro.
Dalla scuola-azienda alle performance scolastiche
Per diversi anni abbiamo sentito l’espressione “scuola-azienda”, quasi fosse un mantra inventato per spingere un aspetto più pratico della formazione. Un’espressione che sottolineava la trasformazione della scuola in un’istituzione finalizzata all’ingresso nel mondo del lavoro, ma che finì per legittimare una crescente competizione interna.
Di recente l’espressione “scuola-azienda” sta cadendo in disuso, ma in compenso si sente sempre più spesso parlare di performance scolastiche: una sorta di corsa al risultato misurabile.
Abbiamo assistito, insomma, ad una serie di trasformazioni che, pur introducendo competenze indubbiamente utili, hanno sottratto ai ragazzi quell’elemento essenziale di cultura inclusiva, finendo per impoverire un percorso formativo che avrebbe dovuto invece arricchirsi.
Quanto rischiamo di sacrificare la formazione culturale e l’empatia se concentriamo tutta l’attenzione sull’utilità? È davvero impensabile coniugare l’acquisizione di competenze pratiche, come la capacità di problem solving, l’uso consapevole della tecnologia o la gestione di progetti, con la coltivazione di valori più profondi, come la collaborazione, la curiosità intellettuale e la sensibilità verso il prossimo? Possiamo immaginare un modello di istruzione che prepari i nostri ragazzi al lavoro, senza rinunciare alla ricchezza culturale e al nutrimento dell’anima?
Competenze e umanità si possono sistematizzare?
Una scuola che tenga insieme utilità e inclusività, che ponga al centro la cultura anziché il profitto e la cooperazione anziché la sola performance, sarebbe capace di formare cittadini davvero completi, dotati sia di competenze concrete sia di un autentico senso di appartenenza a una comunità.
Sia chiaro, è sotto gli occhi di tutti i genitori che esistono tanti insegnanti straordinari che ogni giorno sperimentano metodi didattici innovativi e si impegnano a far crescere i ragazzi sotto il profilo umano e culturale.
La questione, piuttosto, riguarda il sistema: le finalità ministeriali, i meccanismi di valutazione e, in ultima istanza, l’intero “impianto esecutivo” che tende a valutare il successo scolastico soltanto in termini di competenze utili alla produttività. In questo contesto, si premiano le abilità tecniche e la capacità rispetto al mercato del lavoro, mentre risultano spesso trascurati e penalizzati quegli obiettivi più ampi che fanno della formazione un percorso di crescita personale e culturale. Non è possibile affidarsi alla sola buona volontà di insegnanti appassionati per questo percorso.
Come avere una scuola inclusiva e umanizzante
In questo contesto, l’aspetto più preoccupante sembra essere quello dell’inclusione, che ha preso vie del tutto diverse da quelle conosciute dalle generazioni di qualche decennio addietro. Tanto diverse, da ritrovarci in meccanismi di inclusione basati sulle performance e, a fare da contrappeso, meccanismi di esclusione che si incanalano nel bullismo.
Questi concetti sono piuttosto tipici nelle dinamiche scolastiche del mondo anglosassone e d’oltreoceano, ma li troviamo introdotti in un ambito nostrano, mediterraneo, che ha dinamiche diverse e spesso stridenti, ma che possono persino peggiorarne le conseguenze. Forse perché abbiamo una certa tendenza all’invidia, forse perché tendiamo a demoralizzarci più facilmente, queste dinamiche hanno pessimi effetti sui nostri ragazzi.
A questo punto molti obietteranno che il bullismo è sempre esistito anche nelle nostre scuole, anche quando non lo chiamavamo così. Non mi sento di obiettare, ho incontrato in prima persona ragazzi (e ragazze) prepotenti o spocchiosi. Ma le forme recenti di bullismo sono spesso basate sull’idea di ragazzi “perdenti”, in contrapposizione ai vincenti: un’idea di importazione, figlia di una visione della vita (non solo della scuola) orientata, appunto, alle performance.
Origini del modello “scuola-azienda”: vediamo un po’ di storia
La Riforma Moratti (2003-2006)
Per capire come si sia radicata l’idea di “scuola-azienda”, è opportuno partire dalla Riforma Moratti, avviata tra il 2003 e il 2006. Durante quel periodo, vennero introdotti concetti come l’autonomia scolastica e si diede maggiore risalto a valutazioni nazionali, con il potenziamento dell’INVALSI. Secondo diversi autori su Orizzonte Scuola , proprio queste norme avrebbero aperto la strada a una nuova cultura della performance, in cui l’attenzione al risultato misurabile—spesso espresso tramite voti o test standardizzati—cominciava a prevalere su altre finalità, come la crescita civile, l’inclusione sociale e l’educazione alla cittadinanza.
La “scuola-azienda” nell’era Berlusconi/Gelmini (2008-2011)
La spinta verso l’aziendalizzazione trovò ulteriore consolidamento tra il 2008 e il 2011, durante i governi Berlusconi, con la ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Le Leggi 133/2008 e 169/2008 introdussero misure che accentuarono la visione manageriale della scuola:
- Ridimensionamento del tempo scuola e tagli agli organici, con la riduzione delle ore a disposizione degli insegnanti e del personale ATA.
- Enfasi sul “merito” e sulla competizione fra studenti e fra istituti, per alzare il livello di preparazione e premiare i più “bravi”.
- Logiche di valutazione standardizzata (prove INVALSI), vissute da alcuni come uno strumento efficace per comparare i risultati a livello nazionale, ma interpretate da altri come un approccio eccessivamente “aziendale” e poco formativo.
Nel 2011, Il Fatto Quotidiano sottolineò il rischio che tagli e retorica del merito producessero una visione più elitaria dell’istruzione. Parallelamente, Micromega nel 2010 documentò l’emergere di una vera e propria concorrenza interna fra scuole, quasi fossero imprese in gara per ottenere più finanziamenti e attrarre studenti considerati “migliori”.
Questo insieme di provvedimenti e di interpretazioni, insomma, segnò una tappa importante nel dibattito sull’orientamento della scuola italiana, contribuendo a quella trasformazione che tanti commentatori avrebbero poi definito come “scuola-azienda”.
La competizione tra gli studenti e la mentalità aziendale
Oggi, osservando i miei figli e i loro compagni di classe, noto con crescente inquietudine alcuni riflessi dei diversi orientamenti che sono stato dati alla scuola negli ultimi anni. Ormai non si tratta più soltanto di voti o medie, ma di veri e propri “premi” simbolici: dalle lodi pubbliche alla selezione di un ristretto gruppo di studenti per competizioni interscolastiche, come le Olimpiadi della Matematica o di Statistica o concorsi di vario tipo.
Queste iniziative, pur arricchenti se inserite in un contesto didattico equilibrato, rischiano tuttavia di cristallizzare la percezione di “vincenti” e “perdenti” all’interno della classe, alimentando un clima di rivalità anziché di collaborazione.
Ancora una volta, il delicato equilibrio tra la rivalità tra compagni e il sostegno del gruppo classe finisce per dipendere quasi interamente dall’iniziativa del singolo docente, che non sempre riceve la formazione necessaria a gestire le dinamiche psicologiche di studenti sotto costante pressione competitiva.
Come si manifesta la competizione?
- Strutturazione dei voti come premi
I risultati scolastici vengono vissuti dagli studenti come una forma di riconoscimento che avvantaggia chi eccelle. Se, da un lato, è giusto riconoscere l’impegno di chi si applica, dall’altro si rischia di alimentare un clima di rivalità perenne e un senso di invidia latente che corrode il clima di classe.
Troppo spesso, il voto o il giudizio viene trasformato in una valutazione complessiva dell’intelligenza e delle capacità dello studente, anziché limitarsi a verificarne la preparazione su una singola lezione o materia. - Gruppi di studio contro gruppi di potere
Al posto di vere collaborazioni, spesso nascono piccole “cordate” di studenti che mirano a distinguersi come élite, escludendo o demotivando chi è in difficoltà.
L’idea che “insieme si vince” lascia così il posto a una contrapposizione tra chi si sente parte del gruppo vincente e chi ne resta fuori. E spesso l’esclusione non è nemmeno legata a ragioni strettamente “scolastiche”: può dipendere da atteggiamenti, stili comunicativi o scelte personali che non coincidono con quelli del gruppo dominante.
È un problema sociale più che scolastico, ma la scuola ha il dovere di contrastarlo o, almeno, di non alimentarlo. - Ansia da prestazione
La tensione per i voti, la necessità di mantenere una certa media, il timore di fallire di fronte a professori e genitori occupano un posto sempre più centrale nella mente dei ragazzi. È evidente che questo è un problema che riguarda non solo la scuola, ma anche le famiglie.
Se un pizzico di sana competizione può essere uno stimolo, un carico eccessivo diventa deleterio, generando stress, insicurezza e talvolta frustrazione.
Critiche pedagogiche
Molti pedagogisti hanno espresso dubbi e perplessità su questo sistema. Nel loro libro, Anna Angelucci e Giuseppe Aragno evidenziano come la retorica del merito possa favorire una scuola che esalta soltanto alcuni studenti “eccellenti”, aumentando così le disparità sociali. Allo stesso modo, su ROARS.it si mettono in luce gli effetti negativi della competizione eccessiva: stress, disuguaglianze, individualismo. Le conseguenze si possono riassumere in:
- Approccio riduttivo: puntare troppo sulle valutazioni numeriche offusca lo sviluppo del pensiero critico e della creatività.
- Disuguaglianze sociali: chi proviene da contesti svantaggiati rischia di rimanere indietro, anche perché non dispone di risorse e supporti extrafamiliari.
- Individualismo: la scuola, luogo per eccellenza di relazioni, si trasforma in un’arena di “sfide”, perdendo una parte fondamentale della sua missione educativa.
Le critiche al modello della scuola basata sulle performance
Come madre, vivo con un certo timore l’idea che la scuola possa ridursi a una “fabbrica” di competenze tecniche e skill misurabili, trascurando la crescita umana dei nostri ragazzi. Ma non è solo un mio sentimento personale. E non accomuna solo un certo numero di genitori. Tante voci del mondo accademico e scolastico condividono questa preoccupazione.
Stress vs benessere psicologico
È un tema di cui noi genitori parliamo spesso, anche con gli insegnanti: l’aumento dei casi di ansia, la demotivazione e la frustrazione di alcuni studenti schiacciati dalla necessità di “eccellere” a tutti i costi. Chi non riesce a stare al passo rischia di sentirsi “inadeguato”, con possibili ripercussioni anche sul piano psicologico.
Derive manageriali
In alcune realtà, le scuole vengono promosse e “vendute” quasi come brand, con siti web patinati e dati INVALSI usati come biglietto da visita per attrarre iscrizioni. Il dirigente scolastico, figura centrale nell’istituto, si trova a vestire sempre più i panni di un manager, con incarichi di gestione del personale e di marketing dell’offerta formativa. Perfino la forma grafica della presentazione del PTOF assume un ruolo sempre più centrale e talvolta supera i contenuti, proprio come avviene negli uffici di comunicazione di quelle aziende che hanno particolarmente a cuore la loro immagine: tutto per conquistare futuri studenti, visti come clienti.
Come evidenziato su La Tecnica della Scuola (2017) e da un dossier della Flc CGIL (2018), il rischio è di trasformare la scuola in una gara tra istituti, a scapito dell’inclusione.
Riduzione del ruolo formativo globale
In questo quadro, gli insegnanti stessi rischiano di vedere sminuito il valore profondo della loro professione, trovandosi a dover dimostrare costantemente “risultati” misurabili agli occhi dei dirigenti e del Ministero. Così, si perde di vista il principio cardine di una scuola autentica: formare ragazzi capaci di dialogare in maniera civile, sviluppare empatia e spirito critico, nonché lavorare insieme per conseguire obiettivi sostanziali e di reale utilità collettiva. Ancora una volta, l’aspetto relazionale resta cruciale: incoraggiare la cooperazione e il dialogo invece di alimentare rivalità.
Verso una scuola più inclusiva e formativa
Eppure, c’è ancora tanto di buono nelle scuole italiane. Nel mio confronto con dirigenti e insegnanti, vedo tantissimi professionisti che si impegnano costantemente per rendere la scuola un luogo accogliente, di crescita collettiva e individuale. Lungi dall’essere un “pozzo senza fondo” di difetti, il nostro sistema scolastico è abitato da donne e uomini di grande passione e competenza, che cercano soluzioni e innovazioni didattiche.
Mi preme, però, ribadirlo: al di là di qualche eccezione eccellente, mancano indicazioni unitarie e consolidate per affrontare questi temi, e troppo spesso ogni iniziativa resta nelle mani di singoli insegnanti o, nel migliore dei casi, di dirigenti particolarmente sensibili. Non ci sono sistemi di valutazione o formazione di docenti e dirigenti per l’impegno dei singoli o delle scuole nei progetti di inclusione, consapevolezza sociale, collaborazione, lotta al bullismo e così via.
Uno degli aspetti che è stato introdotto a livello istituzionale è l’educazione civica e umana per costruire cittadini consapevoli dei valori democratici e per diffondere la cultura della legalità. Ottime iniziative, molto utili da un punto di vista “istruttivo”. Purtroppo, spesso, resta solo un altro modo di impartire lezioni a studenti che seguono, con più o meno attenzione, passivamente. Non è sufficiente. Cosa manca ancora?
Rimettere al centro la cooperazione
Alcuni insegnanti promuovono gruppi di lavoro misti, formati da ragazzi con competenze diverse, affinché imparino ad aiutarsi a vicenda. Trovo che questa sia una strategia vincente: non solo si sviluppano le abilità scolastiche, ma si crea un clima di solidarietà.
Valorizzare le competenze trasversali
In alcune scuole vengono promosse le competenze socio-emotive attraverso progetti in cui siinsegnano e, ancora di più, si sperimentano la gestione delle emozioni e l’empatia. È provato che, quando ben fatti, questi laboratori possono ridurre i fenomeni di bullismo e migliorare il benessere scolastico. C’è bisogno, però, di un coinvolgimento attivo. Non bastano lezioni subite passivamente dal banco.
Ridurre la pressione della competizione
Come ci ricordano gli esperti, una scuola che si preoccupa eccessivamente di “essere la prima” rischia di dimenticare chi resta indietro. È necessario riconsiderare lo scopo della scuola: non deve essere soltanto la formazione di capitale umano per l’industria e i servizi, ma anche di persone inserite nella società con la volontà di migliorarsi e migliorare ciò che li circonda, cittadini responsabili e critici.
Formare adeguatamente gli insegnanti
Non si può chiedere ai docenti di trasformare la didattica senza offrire loro un’adeguata formazione e le risorse per applicarla. Corsi mirati, condivisione di buone pratiche e strumenti innovativi (anche tecnologici) sono fondamentali.Ciò che dovrebbe invece rientrare nelle valutazioni è la collaborazione tra colleghi: invece di competere per emergere come “il miglior prof”, molti docenti scelgono di unire le forze, scambiando idee e materiali didattici, costruendo programmi alternativi per mostrare le sinergie tra diverse materie, tutto a vantaggio degli studenti.
Le responsabilità genitoriali nell’ansia da prestazione e l’influenza del contesto sociale
Come già accennato, una parte non trascurabile dell’ansia da prestazione dei ragazzi deriva dalle aspettative che i genitori, spesso senza rendersene pienamente conto, riversano sui figli.
Secondo un’analisi di State of Mind – Il Giornale delle Scienze Psicologiche (2023), la pressione familiare può amplificare la percezione del “dover essere perfetti” per meritare approvazione e riconoscimento.
Tuttavia, anche i genitori subiscono l’influenza di un sistema scolastico che insiste su voti, classifiche e prove in cui sembra che i ragazzi debbano mostrare il proprio valore più che la loro preparazione, e di un contesto socio-economico in cui la produttività è percepita come valore primario.
In questa cornice, le famiglie si trovano spesso combattute tra il desiderio di proteggere il benessere emotivo dei figli e la necessità di “adeguarsi” alle richieste di un mondo improntato più alla competizione che alla cooperazione. Mi ritrovo spesso in questo profilo di genitore.
Come sottolinea il sociologo Pierpaolo Triani (Università Cattolica del Sacro Cuore), per contrastare questo fenomeno è fondamentale un’alleanza educativa tra scuola, famiglia e territorio, con l’obiettivo di rimettere al centro lo sviluppo integrale della persona anziché la sola performance.
La performance scolastica dovrebbe essere trasformata da sfida con gli altri a sfida con sé stessi
Non dimentichiamo che i ragazzi imparano da tutto ciò che vedono, ascoltano e vivono in prima persona. Non apprendono solo dalle lezioni impartite e dai libri. Anzi, gran parte dell’apprendimento avviene attraverso esperienze. Per questo l’esperienza scolastica deve essere completa e stimolante, non solo volta a ottenere risultati, ma anche alla conoscenza di sé e alla relazione con gli altri.
Come madre, e con un occhio attento anche agli studi e alle analisi di esperti del settore, ritengo sia doveroso chiedersi se l’attuale sistema, erede di logiche aziendali, soddisfi pienamente il bisogno di conoscenza umana e culturale dei nostri ragazzi o se, al contrario, favorisca solo chi già è avvantaggiato da un contesto familiare o socioeconomico più solido. Dopotutto, l’educazione non deve essere un bene di lusso, ma un diritto e un valore fondante di ogni società democratica. Siamo certi che questo diritto sia realmente e concretamente garantito?
Se da un lato alcuni aspetti — come la verifica della preparazione degli studenti e l’autonomia scolastica — possono stimolare migliori risultati, dall’altro il rischio di alimentare disuguaglianze ed esclusione sociale è sempre più alto.
La performance scolastica dovrebbe essere trasformata da una sfida con gli altri ad una sfida con sé stessi. In alcuni contesti è già così, ma, come è noto, le istituzioni sono lente a recepire i cambiamenti. E questo è un cambiamento sempre più urgente.
In sostanza, quella che appare come una visione moderna potrebbe, se non accompagnata da adeguate tutele e politiche di inclusione, rivelarsi un boomerang per la qualità dell’istruzione e la coesione sociale. La vera sfida resta, dunque, conciliare la legittima attenzione ai risultati con la missione originaria della scuola: formare persone capaci di pensiero critico, empatia, spirito di collaborazione e senso della comunità.
Riferimenti e fonti
- Micromega (2010), “La riforma Gelmini, specchio dell’Italia berlusconizzata”
- Anna Angelucci e Giuseppe Aragno (2020),“Le mani sulla scuola” Castevecchieditore
- State of Mind – Il Giornale delle Scienze Psicologiche (2023), Confalonieri: “La cooperazione con gli insegnanti come mediatore della relazione tra conflittualità familiare e difficoltà psicologiche dei bambini”.
- Startmag (2023),Provinciali: “Come la scuola è diventata un’azienda”
- Orizzonte Scuola (2024), Maraini: “La scuola non è una azienda, è un luogo di formazione e su quello si deve puntare. Molti insegnanti lo fanno già, ma non sono aiutati dalle istituzioni”
- Pierpaolo Triani (2024), “Scuola e comunità educante: le condizioni per uno sviluppo”.
- Altre fonti: ROARS.it, La Tecnica della Scuola, Flc CGIL
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