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Ricerca: la barca affonda

Serve un intervento urgente e a tutto campo

ricerca_titanic_1Dopo le proteste degli ultimi anni, come sta la ricerca in Italia? E’ stata trovata una cura per i mali che la affliggono da così tanto tempo, come precariato, taglio dei fondi, strutture inadeguate e fuga all’estero dei ricercatori?
EZ Rome ha rivolto queste domande proprio a un ricercatore, il dottor Marco Serra, responsabile degli Impianti Calcolo e Reti presso l’INFN di Roma, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
Istituito nel 1951, l’INFN è un punto di eccellenza per la ricerca scientifica nel campo della fisica e dello sviluppo tecnologico, collabora strettamente con il mondo universitario e si distingue a livello mondiale per il suo significativo contributo.
Abbiamo chiesto al dottor Serra come si arriva a occupare la posizione che sognano gli studenti di Fisica, cosa significa realmente fare ricerca e cosa dovrebbe cambiare nel nostro paese.
Ecco le risposte di uno dei nostri migliori cervelli.

ricerca_titanic_2Dottor Serra, qual è stato il suo percorso di studi?
Per quanto riguarda il settore di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali il mio è stato un percorso piuttosto standard. Mi sono laureato a Roma e poi ho fatto il concorso per il dottorato di ricerca, durante il quale sono stato un anno a Roma e poi due anni negli Stati Uniti. Dopo il dottorato di ricerca sono stato circa due anni a Roma e due anni a Ginevra, per poi tornare di nuovo a Roma.
Va detto che io sono uno fra i fortunatissimi, nel senso che negli ultimi anni la situazione dei posti e del precariato nel mondo della ricerca è veramente pesante.
 Noi, come enti di ricerca, negli ultimi cinque anni abbiamo avuto il blocco sia delle piante organiche sia del turn over, con l’impossibilità di prendere nuove persone anche a fronte di pensionamenti, non per espandere l’organico. Si è quindi creato un certo numero di persone, che quando è stato possibile abbiamo cercato di tenere a lavorare con noi con contratti temporanei, ma giustamente si aspira anche a una sistemazione.
Ho dei miei compagni di corso di laurea che a tutt’oggi hanno dei contratti da precario, e io ho cominciato l’università nell’89, mi sono laureato nel ’95…

In una recente intervista di EZ Rome agli studenti del Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza, è risultato che una delle loro maggiori aspirazioni è fare il ricercatore, ma sono molto preoccupati proprio dal precariato.
Entrare nel mondo della ricerca non è una cosa facile. Il percorso è lungo e duro, ci vuole molto impegno e per molto tempo. Non è qualcosa in cui sempre si riesce.
Su cento persone che cercano di fare il ricercatore forse ci riusciranno dieci o venti, ma la cosa più grave in questi ultimi anni è stata l’impossibilità di pianificare la situazione da parte degli enti e delle università, perché cambiavano continuamente le leggi, e quindi la difficoltà di dire con chiarezza ai giovani com’era la situazione e quello che li attendeva.
Ad esempio, noi quest’anno non sappiamo quanti assegni di ricerca potremo dare. E gli assegni sono le prime forme di contratto che vengono date dopo il dottorato.
Uno più o meno può cercare di quantificare la situazione solo per quest’anno, ma non per l’anno prossimo, e tanto meno per l’anno successivo, quindi programmare la situazione a tre o cinque anni, come andrebbe fatto, è estremamente difficile.
Tutto ciò pesa ovviamente sui giovani che cercano di inserirsi in questo mondo.
L’altra cosa assurda di questi ultimi anni, e che forse è difficile da comprendere per chi è al di fuori di questo ambito, è che spesso i ricercatori vanno all’estero.
Una goccia in mezzo al mare è stato il processo di stabilizzazione cominciato col governo precedente, avviato da Mussi, che ha permesso di assumere un certo numero di precari, ma si trattava soprattutto di persone che erano già all’interno del sistema e si trovavano in Italia. Il processo non ha riguardato i tanti giovani bravi che erano all’estero. E’ stata un procedura straordinaria rispetto ad esempio a bandire 200 concorsi in modo ordinario, e serviva, perché c’erano tanti precari in Italia, ma se non si fanno i 200 o 2000 concorsi ordinari che servono , le persone che sono all’estero non possono nemmeno partecipare.
Peggio ancora è successo a coloro che sono tornati in Italia con quello che si definisce ‘il rientro dei cervelli’, che sono tornati desiderosi di fare molte cose, magari con un contratto di tre anni. Sto parlando di ricercatori che facevano un’attività sperimentale e che hanno impiegato magari un anno o due per avere un laboratorio funzionante che gli permettesse di fare la loro attività. Hanno lavorato un anno e dopo è finita lì, perché i concorsi non si fanno.

Quindi non è un luogo comune che in Italia non si investe abbastanza nella ricerca.
I numeri parlano meglio di qualsiasi altra cosa, basta vedere la percentuale del Pil riguardante l’investimento nella ricerca degli altri paesi. Siamo all’ultimo posto, in qualsiasi statistica, e non sto parlando solo di Stati Uniti e Giappone, anche Singapore è più avanti di noi.

In questo momento a che progetto sta lavorando?
Faccio due lavori contemporaneamente.
Sono responsabile del Centro di Calcolo del Dipartimento di Fisica, e questo significa fare in modo che funzioni l’infrastruttura che serve al calcolo di tutti i gruppi di ricerca, ad esempio le reti e i calcolatori su cui vengono eseguiti i programmi di simulazione di analisi dei dati.
Non è un’attività di ricerca specifica su un certo filone, ma, e questo spesso non si sottolinea abbastanza, per fare ricerca sono necessari dei servizi. Se io voglio fare ricerca sperimentale, mi serve un laboratorio che funzioni, con determinate strutture, e se non ci sono fondi è molto difficile.
Quando viene fatto il taglio del fondo di finanziamento ordinario degli enti di ricerca o delle università, significa che ci sono meno soldi ad esempio per fare impianti elettrici, e se io ho bisogno di laser che necessitano di un collegamento elettrico molto stabile, altrimenti il laser non funziona bene, e non lo posso fare perché non ci sono i soldi per sistemare l’impianto elettrico, poi ho problemi a fare ricerca.
Nella ricerca c’è tutto un lavoro di servizio che serve a preparare gli strumenti per fare ricerca, e una parte del mio lavoro riguarda questo.
Per quanto riguarda l’attività di ricerca vera e propria, invece, collaboro a un progetto in fase di realizzazione presso il Cern di Ginevra, ma non uno di quelli famosi che riguardano l’acceleratore LHC di cui si sta tanto parlando, perché al Cern non si fanno solo esperimenti famosi.
L’esperimento si chiama NA62.
Io sono un fisico delle alte energie, e quello che si fa in questo campo è elaborare dei modelli che interpretino la realtà e che ci permettano di fare delle misure per spiegare quello che noi osserviamo.
Nel far questo si fanno esperimenti particolarmente noti ed altri che riguardano pezzi del puzzle, più piccoli, ma indispensabili per la sua composizione e per capire quello che succede.

Molti ritengono che l’Italia sia un paese di prevalentemente umanistica, dove il sapere scientifico è un campo riservato agli addetti ai lavori, difficilmente accessibile ai giovani.
L’anno scorso al Dipartimento di Fisica c’è stata una giornata a porte aperte, in cui noi ricercatori, assieme agli studenti, abbiamo organizzato dei piccoli giochi ed esperimenti per i bambini, e seminari per i genitori. Spero sia un’iniziativa che si possa ripetere.
Era in concomitanza delle proteste contro i tagli alla ricerca, ed è stata una spinta ulteriore per far capire cosa viene fatto nei dipartimenti.
E’ stata una giornata bellissima, cui hanno partecipato tantissime persone. Uno dei giochi si svolgeva presso la fontana de La Sapienza, dove era stata immersa una ‘nave della ricerca’ di cinque metri, con a bordo delle sagome di cartone raffiguranti i ricercatori precari, che i bambini dovevano cercare di ripescare.
E’ stato davvero bello vedere dei bambini che volevano salvare un dottorando piuttosto che un borsista!
Se anche questo serve a far riflettere le persone, noi lo facciamo.

Dottor Serra, se lei potesse intervenire attivamente sul mondo della ricerca in Italia, quali sono i punti principali su cui agirebbe?
Il punto è che è impossibile pensare di fare una riforma che riguardi un solo punto, bisogna fare una riforma organica.
Non si può pensare di risolvere tutti i problemi dell’università,  cambiando il modo di fare i concorsi o aumentando i fondi. E’ necessario fare un discorso organico, in cui nel mondo dell’università si mettono al centro gli studenti, fornendo loro i migliori insegnamenti possibili, favorendo il diritto allo studio, facendo in modo che ci sia un giusto rapporto tra il numero di studenti e di docenti, e riflettendo se servono così tante piccole università, o se invece non sarebbe meglio migliorare la qualità della didattica.
Tutto questo va fatto insieme a un uso mirato dei fondi, e non come avviene adesso, con un taglio piatto su tutti i dipartimenti, senza distinzione, perché questo rende poi difficile capire chi i fondi li usa bene e chi no.
Serve un intervento a tutto campo, che riguardi l’attività di didattica, quella di ricerca, il modo in cui vengono fatti i concorsi, e la programmazione, che deve essere pluriennale, perché non si può pensare di risolvere la situazione in un anno o due con la bacchetta magica.
Il progetto dovrebbe essere per dieci anni, così come la gestione dei fondi, tenendo presente cosa si vuole cambiare in ogni singola parte.
Università, ricerca, finanziamento e valutazione globale, bisogna considerare tutto, e noi come ricercatori facciamo davvero il possibile per far capire quali sono i problemi e cosa facciamo.

Si ringrazia il dottor Marco Serra per le foto dell’articolo

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