Quante volte è capitato di percorrere la via Laurentina, venendo dalla Cristoforo Colombo, di superare lo snodo che permette da qualche anno di imboccare via del Tintoretto senza restare bloccati in code interminabili, e di sfrecciare poi in direzione G.R.A., ignari del tratto di muro sovrastato dalla collina di eucalipti, che costeggia la strada per non più di 500 metri. Se per un momento decidessimo di accantonare la noncuranza scaturita dall'ossessione di arrivare ovunque ed in fretta, per concedere una possibilità alla curiosità esploratrice bramosa di farsi spazio nella corsa contro il tempo che sembra non bastare mai, scopriremmo con stupore e meraviglia quell'oasi cittadina meglio nota come Abbazia delle Tre Fontane.
Anticamente chiamato "Acque Salvie", probabilmente a causa delle sorgenti che hanno favorito l'attività agricola presente nella zona fin dal medioevo, il complesso è oggi denominato Tre Fontane, in memoria di un episodio di grande importanza per la cristianità. Si narra, infatti, che proprio qui, il 29 giugno del 67 d.C., avvenne la decapitazione dell'apostolo Paolo, la cui testa rimbalzò al suolo tre volte, provocando lo zampillio di tre fonti. Per commemorare il martirio del Santo, fu costruita la chiesa di San Paolo, il luogo più significativo sia dal punto di vista spirituale che storico dell'abbazia. I primi ad insediarsi nel monastero voluto dall'imperatore Giustiniano nel VI secolo, furono alcuni monaci greci in fuga dalla Cilicia invasa dagli Arabi, ai quali si deve probabilmente la prima edificazione dell'attuale Chiesa Santa Maria Scala Coeli. Poiché nel corso del secolo XI, nonostante le cospicue donazioni di Papa Leone III e Carlo Magno ed i tentativi di risanare gli edifici, iniziò la lenta decadenza del monastero, questo fu affidato ad una comunità di monaci benedettini, nella speranza che essi potessero risollevarne le sorti. La permanenza di questi ultimi fu breve, poiché nel 1140, per volontà di Innocenzo II, l'abbazia passò nelle mani dei monaci cistercensi, che si occuparono con successo sia del restauro degli edifici già esistenti, che della costruzione della chiesa dei Santi Anastasio e Vincenzo, del chiostro e della sala capitolare, completati nel 1306. A partire dal XV secolo, nuovi periodi di crisi, spinsero Papa Martino V ad affidare l'amministrazione del complesso monastico, ad abati commendatari, inficiando la già vacillante autorità cistercense, definitivamente soppressa con l'occupazione napoleonica dello Stato Pontificio, nel 1808. Lo stato di abbandono e degrado in cui cadde l'abbazia, spaventò i frati francescani subentrati nel 1826, che portarono a termine solo la parziale riapertura del complesso. Furono i monaci trappisti, dopo aver assunto l'incarico nel 1868, a riportare questo luogo di culto agli antichi splendori. Appartenenti all'Ordine Cistercensi della Stretta Osservanza (O.C.S.O.), nato dall'opera riformatrice dell'abate Armand-Jean le Bouthillier de Rancè e volto al ripristino delle dimenticate tradizioni legate al lavoro nei campi, alla clausura, al silenzio ed all'ascesi, questi monaci si impegnarono nel restauro e soprattutto nella bonifica dell'intero terreno su cui sorge l'abbazia. Oltre a costruire gli indispensabili sistemi di drenaggio delle acque stagnanti, essi sconfissero il devastante problema della malaria, piantando oltre 125.000 alberi di eucalipto. Oggi l'eucalipto è anche l'ingrediente principale di cui i frati trappisti si servono per preparare le caramelle balsamiche, i liquori, il miele e numerosi prodotti di cosmesi in vendita nella loro bottega.
E' così che quella vallata malsana ed inospitale, e tuttavia abbastanza estesa da offrire la tranquillità e la solitudine di cui necessita la vita cistercense, costituisce oggi uno dei luoghi più magici di Roma.
Non è sufficiente raccontare il silenzio che ammonisce e conforta chiunque oltrepassi l'Arco di Carlo Magno, lasciandolo per un istante pietrificato alla vista del giardino da cui si intravedono tutti gli edifici dell'abbazia e poi stordito da questa dimensione fiabesca, in alcun modo riconducibile all'assordante viavai delle auto pochi metri più in là.
Per percepire e capire questo silenzio è necessario spegnere il motore e prendersi qualche ora per dimenticare il tempo.
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