Un uomo in pena, stravolto, guarda attonito la campagna innevata sul treno diretto verso la vita che scelse di abbandonare. E che ora lo richiama impietosamente.
L’incipit del nuovo film di Christian Carion ci porta alla tragica notizia da cui prende il via la trama: il mistero della scomparsa di un bambino, Mathys, nel sud-est della Francia. Le indagini si arrestano in un vicolo cieco, sebbene l’ipotesi più accreditata sia il rapimento.
Julien (Guillaume Canet), il padre di Mathys, torna in patria dopo mesi di assenza per lavoro. Sente il peso dell’intera situazione gravare sulle sue spalle: Marie (Melanie Laurent), ex moglie e madre del bambino, ha ormai intrapreso una nuova vita con un altro uomo.
I flashback dolorosi e struggenti affollano i pensieri di Julien, alternandosi in un montaggio intenso e compulsivo, che rende tangibili i rimpianti e i sensi di colpa per non essere stato presente negli ultimi anni della vita del figlio.
Al ritorno in Francia, Julien trova solo porte chiuse. La polizia non asseconda i suoi fantasiosi sospetti sull’attuale compagno di Marie e l’ex moglie non è in grado di condividere il dolore con Julien per via del risentimento che ancora prova per essere stata abbandonata.
L’uomo si ritrova quindi a vivere in completa solitudine la scomparsa del figlio. La razionalità cede il passo alla disperazione più totale. Le sue indagini “private” lo conducono a scovare un traffico di bambini che coinvolge anche il suo amato Mathys: da qui in avanti la pellicola si trasforma in un inatteso action-movie che si dilunga e si disperde in una tensione drammatica fine a sé stessa.
Le intense e introspettive scene iniziali di “Mio figlio” non fanno presagire una seconda parte tanto vuota e sconnessa, che spezza in due la trama andando ad alleggerire il complesso intreccio emotivo di Julien con una soluzione violenta e semplicistica.
La tanto pubblicizzata sperimentazione del regista Carion, che gira l’intero film in soli sei giorni senza che l’attore principale sia a conoscenza della sceneggiatura, non sembra aver dato i suoi frutti, al contrario. Un tema già ampiamente trattato nel cinema ma sempre piuttosto delicato come la scomparsa di un bambino, poteva essere affrontato con maggior cura.
La sceneggiatura non aiuta lo spettatore nella comprensione dei rapporti tra i protagonisti. I dialoghi approssimativi e i personaggi poco caratterizzati non sembrano avere la forza di incidere su una visione che, dalle fasi iniziali ad alta intensità emozionale, va gradualmente attenuandosi.
Nella seconda parte ci si ritrova davanti a un thriller in soggettiva che mira a rappresentare un padre pronto a compiere qualsiasi azione, anche la tortura, pur di ritrovare il suo amato bambino. Tuttavia il regista, focalizzandosi sulla rabbia animalesca e sul vortice vizioso della violenza, perde di vista i punti fondamentali da cui era partito: il dolore e il rimpianto, che non possono essere risolti ed “espiati” dalla mera forza fisica e dal coraggio di salvare un figlio “solo” quando non si ha più nulla da perdere.
La superba interpretazione di Guillaume Canet non è comunque in grado di dare senso a una sceneggiatura alquanto scarna, con troppi silenzi ingiustificati e poco funzionali al ritmo già piuttosto lento del film. Viene dato inoltre poco peso agli attori non protagonisti, come la splendida Melanie Laurent, figura centrale nei primi minuti della pellicola, sorprendentemente accantonata e infine ripresa tardivamente negli attimi finali del film.
Il freddo e la neve della campagna francese fanno da sfondo a una pellicola che parte da un’idea interessante che si sgretola a poco a poco, precipitando nel vortice di un film d’azione inefficace a rappresentare le sfumature e la reale profondità del groviglio di emozioni umane di un padre alla ricerca del proprio figlio.