Giapponesi a Roma, la comunità che non c’è
Intervista a Taiyo Yamanouchi
Giapponesi a Roma. La loro può essere definita in un certo senso la comunità che non c’è. Anche se Taiyo Yamanouchi – cittadino nippo-romano, illustratore, rapper, attore, produttore musicale (sua la piccola ma attivissima etichetta Alto Entertainment) nonché ottimo presentatore dell’ottimo programma di RAI Tre “Freschi di tintoria” – mi dice che lo hanno invitato a far parte del gruppo “Giapponesi a Roma” su Facebook. Questo però non cambia molto le cose, visto che su Facebook ci sono gruppi del tipo quelli-che-mettono-le-mollettine-a-destra-decorate-con-le-stelline-piuttosto-che-con-i-fiorellini-eccetera… D’altronde, perché un cittadino nipponico che vuole stare con altri giapponesi dovrebbe andarsene da un paese che ha praticamente tutto? “Io tutti i Giapponesi che conosco che si sono spostati lo hanno fatto perché non avevano voglia di stare in Giappone” conferma Taiyo, “di conseguenza non si vengono certo a cercare il Giappone qua in Italia. Generalmente sono persone che studiano musica classica, o canto lirico, o arte, o che in ogni caso sono attratte da quello che sembra essere l’umore, l’attitudine italiana”.
Il Giappone è un paese fortemente proiettato nel futuro mentre l’Italia ha un forte e non sempre positivo senso del passato. Istituzioni vetuste e poco spazio per i giovani, ad esempio. Per te che incarni queste due culture, che prospettiva ne hai?
È anche vero che in Giappone, oltre a quello che tu chiami giustamente senso del futuro, c’è anche una cultura sociale che non stimola molto l’individualismo. Le scuole sono oppressive, con ritmi di studio molto pesanti, dall’asilo all’Università, con una competitività estrema. Lì il condizionamento che subisce la tua vita sin dai primi risultati scolastici è fatale per quelle che saranno le opportunità poi a disposizione. Certo, qui in Italia ci si potrebbe aspettare un maggiore stimolo alla valorizzazione del tanto decantato “italico genio”, ma in realtà, come sappiamo bene, non è così, perché l’eccessivo individualismo mette poi tutti contro tutti, mina alla radice il senso della comunità e crea spesso situazioni socio-economico-istituzionali che potremmo definire feudali.
Torniamo a te. Dal tuo curriculum si evince la straordinaria capacità di trasformarsi e ricoprire mille ruoli diversi: illustratore, musicista rap – genere di cui sei anche diventato produttore, appunto -, attore in film e fiction – anche se spesso ti fanno fare il cinese, e va be’… – e poi il ruolo che forse più di ogni altro ti ha reso conosciuto al grande pubblico, quello del presentatore. Mi chiedo: visto l’eclettismo che notoriamente caratterizza lo stile di vita giapponese – vedi l’invenzione dei cosplay, delle lolita, ecc. – dobbiamo ritenere questa tuo camaleontismo una conseguenza delle tue radici nipponiche?
Oddìo, forse, al limite può essere proprio una conseguenza del mix. Si dice spesso che i bambini meticci sono più intelligenti degli altri. Penso sia vero e che la cosa dipenda molto dal rapporto con le culture di origine dei genitori, che offrono uno spettro più ampio di interpretazione delle cose. Certo, dipende anche dal fatto che la persona sia predisposta ad un atteggiamento speculativo, infatti ancora più forte della risposta è la domanda. Io mi chiedo spesso se tutto quello che faccio lo faccio da italiano o da giapponese, e questo mi pone costantemente alla ricerca di un’identità che probabilmente non avrà mia fine, e forse è anche un bene, riuscendo ad accettare la cosa. Anche perché in questo modo ho la possibilità di guardare “dentro” alle due culture e di vedere gli estremi in entrambe: non ho la capacità di un italiano monoculturale di dire “i giapponesi sono così”, perché io di giapponesi ne ho visti tanti. E, credimi, ce ne sono di tutti i tipi. Quando mi dicono “tu sei sempre molto calmo” lo attribuiscono solitamente alla mia parte orientale: io invece lo considero in tutto e per tutto il mio lato, nemmeno italiano, proprio romano. Questa cosa però mi ha dato la capacità e la voglia di sondare fino in fondo l’aspetto antropologico-culturale della realtà che mi circonda, tenendomi anche fortemente radicato al territorio: non è un caso che quando rappo parte del mio linguaggio vive del vernacolo romano.
Il giapponese (come il cinese, da cui d’altronde deriva) ha questa particolarità di non scrivere con segmenti fonematici ma di affidarsi ad una sorta di “film” un po’ scritto e un po’ disegnato chiamato ideogramma, che in effetti significa “immagine scritta”. Una caratteristica che sembra poi permeare l’intero vissuto giapponese, anche rispetto alla dimensione del linguaggio e della comunicazione. Questo tipo di background pensi abbia influenzato i tuoi interessi e le tue scelte artistiche e professionali?
In qualche modo sì. L’hip hop e il rap, così come l’ideogramma, sono un linguaggio che vive moltissimo di convenzioni. Io amo i linguaggi che vivono di convenzioni, perché quello che hanno in più rispetto al linguaggio “aperto”, cioè quello più astratto legato ai fonemi – quindi alla trasmissione semantica del significato -, è un forte elemento di complicità fra coloro che lo condividono. La stessa cosa che succede in definitiva nel cinema di genere: io amo molto ad esempio i film horror o di arti marziali, o un certo tipo di commedie, tutte produzioni che richiedono una qualche complicità da parte dello spettatore. Questo perché, quando tu ti appoggi a una cultura, sei parte di una comunità la cui comunicazione trascende il linguaggio, scritto e anche parlato. Prendi ad esempio l’haiku: è assolutamente irriproducibile in italiano, perché fondamentalmente la scelta dell’ideogramma – tieni conto che in giapponese ci sono parole che possono essere scritte con diversi ideogrammi – oppure la scelta dell’ “immagine” che si utilizza (l’albero piuttosto che la primavera ecc.) si porta dietro una serie di echi e di rimandi. Per cui tu ti puoi effettivamente permettere di scrivere sette sillabe e nello stesso tempo grazie a queste rievocare tutto un bagaglio di conoscenze che è insito nel tessuto culturale di chi lo condivide. Così anche nell’hip-hop: chi è profano sente delle parole che gli sembrano roba in codice, mentre chi è abituato ad ascoltare le assimila immediatamente.
Cultura italiana e cultura giapponese, i pro e i contro dal tuo punto di vista.
Io amo molto la cultura italiana, ma soprattutto amo molto la cultura romana, il suo atteggiamento mentale, cose su cui sono molto concentrato: mi sono chiesto spesso cosa significhi essere romani – ho vissuto per un po’ di tempo anche a Trastevere, il cuore di Roma, con veri trasteverini – e mi lascia molto amareggiato vedere che ci sono molti romani che hanno la romanità dentro, ma non ne sono affatto consapevoli, perché non esiste più assolutamente nessun momento di focalizzazione di quello che è il retaggio culturale specifico romano. Ma vale lo stesso anche per l’Italia, anche gli italiani non sanno più chi sono. Ancora non ho capito bene dov’è che si è iniziata a creare la frattura e dov’è che si sono iniziati a perdere i pezzi per strada. Questo però gli italiani non lo capiscono, non capiscono tante cose, e soprattutto sono molto confusi dall’influenza che ricevono dall’estero – cosa che fa molto parte del carattere italiano – e tendono a inseguire molto certi stimoli, certe immagini che vengono lo proposte, senza però poi volerle interpretare nella loro chiave, cosa in cui invece i giapponesi sono maestri.
Scritto da VS