La traduzione letterale è “a chi tocca non si arrabbi e non metta il broncio”.
Il “grugno” è infatti il viso, o meglio il muso di un animale, imbruttito da una espressione di rabbia o minaccia. Perciò “ingrugnarsi” o “ingrugnirsi” assume il significato di fare una faccia brutta, un’espressione di rabbia e scontentezza, ovvero mettere il muso. Insomma si potrebbe anche tradurre con: se ti è andata male, ti è toccato questo triste destino o questa disgrazia, non prendertela e non mettere il broncio, rassegnati e vai oltre.
Questa espressione, tra il cinico e il consolatorio, sembra derivare da un antico gioco romano di carte detto “passatella”, in cui chi perdeva non poteva bere per un giro se gli altri giocatori decidevano, del tutto arbitrariamente, che doveva essere così. Dato che chi veniva “condannato” a tale penitenza spesso ci rimaneva male, gli si diceva, appunto, “a chi tocca nun se ‘ngrugna”, intendendo che se a quel giro era toccato a lui al successivo sarebbe probabilmente capitato a qualcun altro, quindi era inutile perdere tempo ed energie a rimuginare sul fatto, tanto valeva proseguire col gioco.
Ed ecco quindi l’uso che se ne fa ancora oggi: l’idea si può esprimere come “Oggi è capitato a me, domani potrebbe capitare a te!”, anche se e quando non si tratta necessariamente di una cosa che capita da sola, ma che avviene come conseguenza di una decisione di altri.
La cosiddetta “filosofia” o morale del proverbio consiste nella cinica rassegnazione di fronte ad un evento voluto dal caso o determinato da un’autorità che non ci rende certo contenti, ma che resta inevitabile e, soprattutto, incontrovertibile. Una filosofia valida se guardandoci allo specchio ci rivolgiamo a noi stessi dicendoci il proverbio nei momenti difficili della vita.
Certo se invece il “fattaccio” è capitato a qualcun altro e ci rivolgiamo al malcapitato con questa espressione, non è detto che la prenda in maniera “filosofica”. Anzi è facile ricevere da parte sua un epiteto non troppo gentile, specialmente a Roma. D’altra parte l’espressione si usava, appunto, nell’ambito di un gioco, e perciò in una situazione in cui essere cinici con l’avversario e metterlo in difficoltà faceva parte della sfida, della sfrontatezza del vincitore e dello scorno dello sconfitto. In situazioni meno ludiche l’espressione perde gran parte della sua simpatia e giocosità, rischia di diventare antipatica o disfattista.
Naturalmente conta sempre il modo in cui viene proposta, e qui entra in gioco eventualmente il senso di solidarietà di chi ci parla, e se e quanto è consapevole che a tutti prima o poi tocca patire almeno un po’. Perciò se il tono è quello giusto assume un’accezione solidale, come quando si riscontra di avere un male comune e si deve tirare avanti nella stessa direzione.
E’ in conclusione un’espressione un po’ difficile da trattare fuori dai confini capitolini … e talvolta anche dentro. Bisogna coglierne con sottigliezza ed umorismo le diverse sfumature ed usarle opportunamente con la voglia di ridere e sorridere degli eventi e, soprattutto, di sé stessi.