Piatti tipici e ristoranti etnici a Roma:
Tanti. Diversi. E anche molto buoni.
Sono i ristoranti etnici che sono sorti a Roma da un po’ di tempo a questa parte: e non stiamo parlando del solito ristorante cinese, ma del ristorante egiziano, di quello peruviano o dei giapponesi che si sono rapidamente moltiplicati, trascinati dalla moda del sushi e del sashimi.
Per non parlare poi delle classiche churrasquerias centro-sudamericane, dei ristoranti indiani (due “storici” si trovano vicino ai Fori) o degli inossidabili kosher del Ghetto ebraico.
Un mondo etnico che circonda le intramontabili trattorie, con le loro tovaglie a quadretti bianchi e rossi e la caraffa per il vino vicino al piatto di pasta all’amatriciana. Circonda, ma non insidia: perché, si sa, il cibo, come tutta la cultura, trova sempre ispirazione nell’incontro con l’altro, soprattutto se è un incontro fatto di sapori, di odori e di ingredienti.
Già, gli ingredienti. Forse è questo l’elemento che più di ogni altro è portatore di invenzione e novità: emblematico è il caso di quel ristorante giapponese dove, alla richiesta di una certa verdura saltata, il cliente si è visto portare una bella ciotola decorata in blu piena di… cicoria ripassata. Alle perplessità dello sconcertato avventore sull’effettiva tipicità del piatto, il cameriere ha risposto spiegando che la cicoria era la verdura più simile a quella che usavano in patria per quel piatto, e che in Italia non si trovava.
Come dire: posto che vai, usanze che trovi… ma gira e rigira alla fine tutto il mondo è paese.
Una cosa nuova, dunque, del tutto inedita. E che se fino a qualche decennio fa era relegata in due o tre ristorantini che dovevano aggiustare alla bene e meglio prelibatezze tipiche, adesso si allarga a macchia d’olio rischiando di diventare una vera e propria cucina, o anche solo un vero e proprio esercizio tipico, come ad esempio i “Pizza e kebab”.
Kebbabbaro, poi, è proprio entrato nel linguaggio comune di tutti i giorni, assimilabile se non esattamente sovrapponibile, a quello di pizzettaro.
Un gioco di incastri e di incontri, quindi, grazie al quale oggi è facile portare a casa per “sfiziare” la cena supplì (che pure questi sono di origine inglese, tanto che la parola viene da una contrazione, erratamente considerata romanesca, di “surprise”), crocchette e falafel.
Così, l’adattamento ai gusti di un pubblico sud-europeo, la carenza di materie prime originali che non possono essere importate e la curiosità di provare cose nuove sentendosene liberi, porteranno a mix inediti e nuovi piatti che forse un giorno diventeranno caratteristici (di che, ancora non è dato saperlo) e magari daranno vita a culture conviviali nuove e diverse rispetto a tutte quelle finora conosciute.
Certo, in una steak-house ci si potrà ancora sentire un po’ americani, ma inevitabilmente americani a Roma. E si sa che gli americani a Roma sono un po’ speciali: sono santibailor…
Scritto da VS