“Milena è nata in un nido, come gli uccelli. Il nido non stava su un ramo, e non si poteva vedere il cielo.”
Il nido di Milena non è come quelli dove portiamo i nostri bambini, è il nido di Rebibbia, in cui vivono i figli delle detenute. La scrittrice Rosella Postorino vi ha ambientato il suo ultimo romanzo, Il corpo docile, edito da Einaudi, un libro che sembra inciso, non semplicemente scritto.
Ogni parola è un’ arma affilata che scava nei sentimenti e nella carne, perché, come recita il titolo, è il corpo ad essere protagonista. Idolatrato dalla nostra società, che lo pretende perfetto, è anche lo strumento per somministrare la più grave delle pene, la detenzione, con cui viene rinchiuso, sottratto.
Per Milena il carcere è come un difetto genetico ereditario. Si manifesta nella sua vita in modo subdolo, deformante, perché per poter restare accanto alla madre deve scontare la pena per una colpa che non ha commesso. L’amore, per i bambini come lei, è una prigione, e uscirne non vuol dire libertà, ma abbandono.
“Sognava di essere cattiva per tornare da lei, e adesso che lo è diventata, adesso non sa come fare.”
Com’è nata Milena, la protagonista de Il corpo docile, e come ha vissuto i primi anni della sua vita?
RP: Milena è nata in galera, perché lì sua madre era rinchiusa. Fino a tre anni è vissuta nel nido di Rebibbia, in simbiosi con la madre – ossessionata dal marito – e accanto a Eugenio, figlio di un’altra detenuta. Con Eugenio giocavano a contare le stelle, anche se non ne avevano mai vista una, per cercare di addormentarsi nonostante il clangore metallico dei blindi che sbattevano la sera. Con Eugenio catturavano uno scarafaggio e lo facevano prigioniero, per avere anche loro un animale domestico da accudire. Con Eugenio imparavano il linguaggio della detenzione: ora d’aria, terapia, cella, fatemi uscire. Non l’hanno più scordato.
“Milena a tre anni ha avuto in regalo un padre e due nonni, il carcere come desiderio e niente da spegnere per realizzarlo.” Cosa succede di solito a quell’età, a un bambino che cresce con una mamma detenuta?
RP: Per legge a tre anni (ma dal 2014 l’età salirà a sei) i bambini sono separati dalle madri, lasciano la prigione e vanno ad abitare altrove: con altri parenti o con famiglie affidatarie, per esempio. Naturalmente è impossibile per loro capire il perché di questo allontanamento, che può essere vissuto come un abbandono. Il passaggio è da una quotidianità fusionale, simbiotica, all’assenza ingiustificata della madre. Per Milena è stato uno strappo che, di fatto, non si è mai ricucito. Nemmeno quando la madre ha finito di scontare la pena ed è tornata a vivere con lei. In fondo, Milena non l’ha mai perdonata né di averla fatta nascere in prigione né di averla fatta uscire da lì: senza di lei.
Da adulta, Milena torna a Rebibbia. E’ perché non può o non vuole dimenticare?
RP: Milena non conosce altro mondo che la prigione. È nata invisibile e da invisibile continua a vivere. Tutte le persone che frequenta appartengono alla prigione, la sua stessa vita è una prigione su misura, che tuttavia la protegge. La libertà è un rischio che Milena non sa correre. Prendersi cura dei bambini detenuti è un modo per riscattarsi, ma è anche un modo per non uscire mai da Rebibbia, la sua terribile culla.
Si parla molto di carceri, negli ultimi tempi, ma saperne scrivere è un’altra cosa. Come ci è riuscita?
RP: Ho letto molto sul carcere, anche racconti di carcerati e carcerate, tra le altre cose. Però credo che la mia esperienza di volontaria con i bambini che vivono nella sezione nido di Rebibbia sia stata fondamentale. Non solo per la scrittura: è stata un’esperienza fortissima, che solo in parte la letteratura può restituire, e in ogni caso non era quello il mio intento. Volevo parlare di questo tema misconosciuto, sì, parlare dell’ingiustizia per eccellenza: essere condannato da innocente assoluto, per nascita. Ma soprattutto perché mi interessava, ancora una volta, raccontare la condizione di chi si sente in gabbia, di chi sente di aver ricevuto in eredità la colpa, e dalla colpa crede di non potersi redimere mai.
Detenzione significa anche sovraffollamento, rabbia, violenza. Perché lei parla di “corpo docile”?
RP: Cito Foucault, che in Sorvegliare e punire definisce “docili” i corpi dei detenuti. Corpi assoggettati all’istituzione totale carceraria, che ne sospende i diritti fondamentali, che li mortifica e li addomestica. Il potere, per Foucault, si esercita esattamente sui corpi delle persone: è la tecnologia politica del corpo, che lo addestra e gli impone produttività ed efficienza. Ho intitolato il romanzo Il corpo docile prima di tutto perché la storia è raccontata attraverso un corpo, quello di Milena, attraverso il suo rapporto con lo spazio e con gli altri corpi, tanto che ho cercato una lingua il più possibile materica, fisica. In secondo luogo, perché il corpo di Milena è solo uno dei tanti corpi che la società vorrebbe perfetti e immarcescibili, adatti a produrre e consumare all’infinito, e tuttavia la sua fallibilità evidente, continua, è anche la forma di resistenza di Milena – è una dolorosa ma possibile forma di resistenza umana.
Il corpo docile
di Rosella Postorino
Edizioni Einaudi