Roberto Milano ha una laurea e quattro lavori precari. Per pagare affitto e bollette fa la comparsa nei film porno, il barista, dà ripetizioni a un ragazzino “stronzetto” e consegna pizze a domicilio. E’, come si dice, un giovane come tanti, il protagonista del romanzo Dimmi che c’entra l’uovo di Fabio Napoli, edito da Del Vecchio, definizione in cui si legge l’indifferenza, e forse anche il disprezzo, verso una generazione a cui sono stati lasciati i rifiuti di chi li ha preceduti: un tempo in cui sono stati aboliti i sogni, un mondo di sicura incertezza.
Quando sembra che le cose non possano andare peggio, Roberto perde tre dei suoi impieghi.
Ecco come si finisce per sognare un lavoro in un fast-food, perché è a tempo indeterminato. Solo che al colloquio, tra una telecamera nascosta e una domanda sulla propria vita sentimentale, capita che chiedano: “Lo sportello del frigorifero è chiuso, voi siete un uovo, alla vostra destra avete una scatola di carciofini, alla vostra sinistra un pezzo di formaggio, davanti a voi il ripiano con la busta del latte. Come fate per uscire?”
Un salto sul tavolo sotto gli occhi allibiti dell’esaminatore, e un sasso contro la vetrina di un fast-food, dopo aver scritto con lo spray: “L’uovo è uscito dal frigo.” Comincia così la ribellione di Roberto, e finisce in una serie di rapine con “la banda dei precari”. A dettare il ritmo di una trama senz’altro avvincente, è lo stile di Fabio Napoli, giovane scrittore romano che con questo romanzo è stato finalista della XXII edizione del Premio Calvino. Nelle sue parole si legge il disincanto verso un mondo surreale, ma anche la fresca ironia di chi, grazie forse alla propria età, non si lascia indurire dal sarcasmo: “Di fatto l’unico mestiere che mi è rimasto è quello di rapinatore. Di buono c’è che è a tempo indeterminato, almeno finché non ti beccano.”
E’ amara la considerazione di Roberto Milano: “Cinque anni di università e l’unica cosa che mi hanno portato è un lavoro da 15 euro l’ora tre volte la settimana.” Come vive la propria vita il giovane protagonista di Dimmi che c’entra l’uovo?
FN: Roberto, il protagonista della mia storia, per vivere fa quattro lavori e mezzo: barista, pony express in bicicletta, dà ripetizioni ad un bambino viziato, fa la comparsa nei film porno e non perde mai occasione per vendere uno sterilizzatore al primo che incontra. Per questo Roberto passa le sue giornate correndo in bicicletta da una parte all’altra di Roma. Non ha molto tempo da dedicare a sé, tanto meno alla sua ragazza. L’unica cosa a cui riesce a pensare è a come fare per mettere insieme i soldi necessari a pagare l’affitto.
Uno dei datori di lavoro di Roberto, se così si possono definire, dice: “Al posto vostro avrei già fatto la rivoluzione io, insieme a tutta quella banda di sfigati come te.” Ciò che spesso stupisce in effetti, è come da parte dei giovani, per la maggior parte precari quando non disoccupati, manchi una reazione unitaria, organizzata. Perché?
FN: In realtà a parlare non è un datore di lavoro, ma uno dei pensionati che frequentano il bar dove lavora Roberto. Non è che non ci siano state reazioni. In questi anni ci sono state tantissime manifestazioni contro lo stato attuale del lavoro e si sono formati un sacco di collettivi e di gruppi che organizzano dibattiti, incontri, laboratori, per sensibilizzare e cercare di innescare una reazione. Il problema è che tutte le manifestazioni che ci sono state non sono riuscite a durare nel tempo, come è successo invece in Spagna con gli Indignados. Non sono riuscito bene a capire il perché ma è molto persuasiva la teoria dei Wu Ming, secondo la quale i movimenti italiani sono stati come un fuoco di paglia perché ci sono altre valvole di sfogo – come il Movimento 5 Stelle – che hanno convogliato altrove le energie, hanno diminuito la pressione sotto il coperchio. Sono sicuro che la ragione non è solo questa ma la teoria è affascinante. Poi secondo me c’è anche un altro problema, che coinvolge gli individui. Nel senso che in Italia è diminuito moltissimo, per diverse ragioni, il senso di collettività, per cui si sta bene solo se stanno bene anche gli altri. In questi ultimi anni la società italiana, a partire dai più giovani, si è molto incattivita. L’uso esclusivo dell’automobile, delle cuffiette con la musica sui mezzi pubblici, del cellulare acceso anche durante la notte, la competizione estrema nei colloqui di lavoro, all’università, in ufficio ci ha reso tutti un po’ più soli e un po’ più cattivi. E in generale, ai movimenti questa cosa non fa tanto bene.
All’ennesimo colloquio per un lavoro in un fast-food, il protagonista si trova a chiedersi: “Dimmi che c’entra l’uovo”. E se lo chiede anche il lettore, disorientato a sua volta da una realtà ormai senza punti di riferimento, senza vie d’uscita in vista. Come si muovono al suo interno i giovani, categoria a cui anche tu appartieni?
FN: Il protagonista si chiede dimmi che c’entra l’uovo da una domanda assurda che gli viene sottoposta in un test durante un colloquio di lavoro. Un po’ ne ho già parlato rispondendo alle altre domande. In ogni caso credo che la tendenza generale sia quella di vivere un po’ alla giornata. Difficilmente si riesce a fare dei progetti a lungo termine – come andare a vivere da soli, farsi una casa o una famiglia – perché l’unico orizzonte che si ha, spesso, non va oltre un co. co. pro. di tre mesi. Dopo di ché si deve riiniziare tutto da capo.
Come tanti suoi coetanei, il protagonista del tuo romanzo reagisce a livello individuale: “Non sono più sicuro di niente. Come se fino ad adesso fossi stato sicuro di qualcosa. Sono bastati due giorni per stravolgermi la vita e farla ripartire da zero.” Lo fa, però, scavalcando i confini del lecito. Perché arriva a tanto?
FN: Il protagonista si mette a fare rapine non tanto come atto di protesta – “adesso faccio qualcosa di illegale” – ma per necessità. La sua unica preoccupazione è di arrivare a fine mese. Dal momento che perde tre dei suoi quattro lavori la cosa più logica e più sicura da fare – per assurdo – è andare a rapinare un bar. Senza contare che una cosa del genere è molto divertente da scrivere.
Fabio, tu sei nato nel 1986. C’è la tua personale esperienza dietro a quella di Roberto Milano?
FN: No, assolutamente. Mi sono inventato tutto. Qualche anno dopo averlo scritto mi sono ritrovato a fare più di un lavoro e a dovermi spostare da un posto di lavoro a l’altro in bicicletta, come il protagonista della mia storia. Quindi ho rischiato di trasformarmi in Roberto solo dopo aver scritto il libro ma per fortuna, dopo qualche mese, i ritmi della mia vita sono tornati a rallentare. Anche se per andare da una parte all’altra di Roma mi sposto sempre in bicicletta.
Dimmi che c’entra l’uovo
di Fabio Napoli
Del Vecchio Editore