Spunta dalle nostre radici l’identità. Ma se come un albero, viene reimpiantata altrove, non sempre riesce ad adattarsi. Diventa tutto e niente, come nel romanzo di Tommaso Giagni “L’estraneo”, edito da Einaudi.
Non ha nemmeno un nome il protagonista, che non sentendo propria la terra della “Roma delle Rovine”, torna in quella da cui è stato strappato, la “Roma di Quaresima”.
“Nano stordito da architetture gigantesche, ingombranti”, lascia Porta Pinciana e si trasferisce al Quadraro “per imparare a dare del tu alla vita”. Ci trascina con lui, l’Estraneo, quando cerca di sfuggire alla retorica di una città senza nuvole, dove le piante costeggiano il fiume, e si ritrova in una periferia senza una piazza, fatta di palestre e di solarium, dove i muri sono ricoperti da croci celtiche.
Verrebbe da urlare di tornare indietro a questo ventenne, di scappare dalla realtà che noi adulti abbiamo consegnato a un’intera generazione, e nella quale a volte siamo i primi a sentirci estranei.
Ruvidamente accurate, le parole di Tommaso Giagni invece ci ammutoliscono: ”Dove arriva il tuo gusto dell’orrido, ragazzo? Hai lasciato le opere d’arte che avevi sotto casa, non è che magari ti piace lo sfasciacarrozze di qua?”
“Il Colosseo non era all’altezza, eh?”
Impossibile non seguirlo nel suo viaggio, fino all’ultima pagina, fino all’ultima svolta.
“L’estraneo” è il racconto di un viaggio che probabilmente la maggior parte delle persone non vorrebbe mai fare: dal centro di Roma verso la borgata. Perché il protagonista sente di dover intraprenderlo?
Perché in quel centro di Roma il protagonista non si è mai sentito accettato, non sente quei luoghi come suoi, e a vent’anni il bisogno di definire sé stessi è dirompente. D’altra parte la sua storia personale, le sue origini (i genitori sono nati e cresciuti in periferia), non possono che fargli cercare in borgata le proprie radici.
Dopo il trasloco in periferia, la sua constatazione però è che “intorno non c’è niente della poesia di Pasolini”…
La periferia che si aspetta di trovare è quella – per intenderci – pasoliniana, conosciuta sui libri ma anche attraverso un padre che appartiene a quella generazione. Il fatto è che le borgate sono cambiate completamente, a partire dagli anni Ottanta, e il mondo che l’Estraneo credeva di incontrare non c’è più: si è museificato, ha lasciato il posto a dinamiche diverse – sul piano socioculturale, una piccola-borghesia vuota invece che un romantico proletariato.
Riferendosi al padre, il protagonista sente che “il sangue suo dice Quadraro, così come lo diceva quello di mia madre che ci era nata: come può allora il mio – che ne è la combinazione – sentirsi di rientrare a casa, altrove?”
Perché le sue radici non hanno attecchito in città, un terreno forse più fertile di quello di una periferia che si estende tra i campi brulli e la marrana?
C’è bisogno di più tempo e d’un carattere più forte di quello dell’Estraneo, perché si possa mettere davvero radici. D’altro canto, la “Roma bene” che descrivo è ben poco aperta, ripiegata anzi su sé stessa e impegnata ad autocelebrarsi.
Ad un certo punto la considerazione è che “se mi ci è voluta questa gente per sentirmi dare del ragazzo bene, così mi ci è voluta la distanza che dà la Quaresima per apprezzare la Roma delle Rovine”.
Pensa che il senso di non appartenenza si sia acuito nella generazione dei ventenni, di cui lei tra l’altro fa parte? E se sì per quali motivi?
Direi proprio di sì, e per capirne i motivi bisogna guardare alla Storia: un ventenne di oggi ha potuto conoscere solo la distanza e la pochezza delle politica, il ritardo e lo screditamento delle istituzioni religiose, l’annullamento delle specificità che ha portato la globalizzazione. Se nasci con la caduta del Muro e Tangentopoli, le sezioni partitiche e gli oratori vuoti, senza punti di riferimento, come fai a non essere disorientato?
Il vagare attraverso la città in uno stato di malessere, l’allontanamento dalla scuola, il rapporto con la sorella, fanno pensare a “Il giovane Holden” di Salinger. C’è qualche punto di contatto con il grande scrittore americano? O forse si è ispirato a qualche altro autore?
In verità Holden non ha avuto il peso di altri libri. Per restare sul romanzo di formazione, “Morte a credito” di Céline, ma più in generale titoli come “Memoriale” di Volponi o “Il libro dell’inquietudine” di Pessoa. Nel racconto della marginalità a Roma, il mio è un romanzo che – oltre a Pasolini e al “Pasticciaccio” di Gadda – guarda a una letteratura che va da Onofri, Camarca, Carraro, fino a Siti.
L’estraneo
di Tommaso Giagni
Edizioni Einaudi