Delineare la mappa del proprio percorso puntando l’ago del compasso sulla pedana dei vigili a piazza Venezia, come Romolo tracciò il solco con cui venne fondata la città eterna.
Comincia così L’O di Roma di Tommaso Giartosio, pubblicato da Laterza. E’ il sogno di percorrere la propria città lungo una forma perfetta, attraverso le realtà erette dal tempo: le mura di cinta, i ministeri, le case, il Vaticano.
Per la città su cui è già stato scritto ogni tipo di guida, lo scrittore parte seguendo una via insolita, quella del “tuffo al cuore”, con i suoi passi come unità di misura del viaggio.
“Sono il testimone di Geova, il sondaggista, l’omino della Folletto”, scrive, ma con uno stile che si distingue, Giartosio riesce a gettare uno sguardo nuovo su Roma, città ansiosa e a volte ostile.
Ecco allora che il racconto passa attraverso l’Aniene di Pasolini, il parapetto di Ponte Margherita su cui Mattia Pascal abbandona cappello e bastone, i colori della primavera romana visti da Rilke, gli Orti di Galatea.
“Non mi illudo (non ti illudo, lettore): per quanto radicata nei fatti, la storia che racconterò sarà qualcosa di più, un impasto di senso che conglomera tutti i frammenti accidentali e insignificanti della giornata di viaggio. Una sopraelevazione così intonata che dovrai condonarla.”
Signor Giartosio, un giorno lei ha puntato un compasso su piazza Venezia descrivendo un cerchio, con l’intenzione di percorrerlo completamente a piedi. Fa un po’ pensare al solco con cui Romolo tracciò Roma. L’idea è nata dal desiderio di ridefinire la sua città o da cos’altro?
Sono partito per un senso di necessità, senza sapere perché partivo. Il viaggio doveva servire proprio a capire questo impulso iniziale. E qualcosa ho capito. Per esempio, credo che c’entri la necessità di riappropriarsi di un luogo in cui io ho vissuto per qualche decennio e i miei predecessori per ventotto secoli. Un luogo simile è consumato dall’uso. Devi sbatterlo un po’, rifare il letto, sprimacciare la città.
Il suo percorso prevedeva di attraversare le mura aureliane, il Tevere, i binari della stazione Termini, Villa Abamelek, che è la residenza degli ambasciatori russi, il Vaticano e perfino il Ministero dell’Aeronautica. Scusi, ma come le è venuto in mente, e soprattutto, come ci è riuscito?
Non sono sicuro di esserci riuscito. Bisognerebbe arrivare in fondo al libro per saperlo. Di certo ho una testa dura, e sono pronto a scavalcare qualche cancello quando occorre. Soprattutto, sono molto curioso. Mi incuriosisce tutto: il cortile condominiale, il convento, lo zoo, San Pietro … Tutte cose che ho incontrato sul mio cammino. E poi mi incuriosiscono le persone.
E quando si trattava di passare attraverso uffici, negozi o addirittura case private, come reagivano le persone?
Ho suonato praticamente a tutti gli appartamenti che incontravo lungo la mia linea, e se trovavo qualcuno in casa, il novanta per cento delle volte mi lasciavano entrare. Devo avere un’aria molto perbene, oppure molto inoffensiva. Ma la verità è un’altra: la gente non ama le regole. Tutti noi vorremmo seguire un percorso tutto nostro invece di camminare dritti lungo il marciapiede della vita. E allora la gente che incontravo – non certo esperti di letteratura – questa cosa la capiva. E tifava per il mio viaggio. Forse uno capisce la poesia quando la incontra.
Lei scrive che “la letteratura è l’arte della perifrasi, della circonlocuzione, del girare attorno”, e che “esiste davvero una parentela stretta – anche inquietante, per eccesso di levità – tra il disegnare mappe e il creare parole.” E’ questo lo spirito che anima il suo libro?
Certo, la letteratura vive di perifrasi. Se si potesse dire in una frase il senso di un libro, se fosse possibile andare dritti al messaggio, perché scrivere il libro? A chi scrive, le parole già disponibili non bastano. Non bastano, o sono di troppo. Perciò uno si deve fabbricare un linguaggio, una forma. Si obbliga a rispettare una rima, o a scrivere in endecasillabi, oppure, come nel mio caso, a seguire un’O. Però al tempo stesso deve tenere gli occhi aperti sulla realtà: l’O attraversa luoghi concreti, incontra persone reali. È questo il bello, la sfida della realtà. Farsi strada lungo un sentiero inventato, attraverso una giungla vera.
Lungo la sua “O”, si è trovato a pensare che le sue motivazioni sono tutte vere, ma “non spiegano l’essenziale: perché percorro, perché scrivo, perché gioco?”
Ha trovato una risposta?
Sì, la risposta l’ho trovata. Ma è lunga. Inizia così: “Tutto comincia con un sogno. Un bambino immagina di attraversare la sua città lungo una circonferenza disegnata col compasso sulla mappa …” La risposta è il libro che ho scritto.
L’O di Roma
di Tommaso Giartosio
Editori Laterza
La foto dell’autore è di Rino Bianchi