Godibilissimo libro Ebrei sul Tevere di Giulia Mafai pubblicato da Gangemi Editore, il cui titolo fa da introduzione agli oltre duemila anni di presenza degli ebrei a Roma.
Sin dai primi insediamenti antecedenti all’Impero di Augusto, durante la segregazione nel Ghetto a partire dal 1555, fino ai tragici eventi dell’occupazione tedesca, la storia degli ebrei romani è stata un alternarsi di persecuzioni e concessioni. Nei secoli, la reiterazione delle prime e il frequente ritiro delle seconde, hanno plasmato un’identità che si è preservata anche attraverso la lotta per la sopravvivenza, per l’autoconservazione.
Ebrei sul Tevere, quindi, come l’antico Ghetto, lambito dal fiume ma chiuso al resto della città da portoni chiodati. Una rappresentazione emblematica, quasi visiva, di vite capaci di galleggiare sulle acque agitate della storia senza perdersi in esse. Chissà se l’autrice l’ha elaborata attraverso gli occhi dei genitori, entrambi artisti: il padre, il pittore Mario Mafai, fondatore della Scuola Romana, e la madre, Antonietta Raphaël, ebrea lituana, pittrice e scultrice.
E’ così, signora Mafai?
“Io sono una mezzosangue, ebrea da parte di madre, mentre mio padre era cattolico. Come quasi sempre avviene però, l’imprinting deriva dalla madre, e lei mi ha trasmesso un senso atavico di giustizia, di onestà verso sé stessi e verso gli altri, sempre, senza nascondersi dietro a ideologie. Quando dipingeva era un inno alla natura, – se fossi credente direi al Creato -, alla vita e al rispetto verso di essa. Io non so quanto questo fosse parte della cultura ebraica o suo come persona e artista, in fondo la cultura è cultura, non ha nazionalità. Ora fa parte di me ma non mi chiedo da dove venga. In una biblioteca si possono trovare sezioni dedicate all’Ebraismo, all’antica Grecia o al Rinascimento, però il sapere è nell’aria. Come quella che respiravo accanto a mio padre, che leggeva Dante e Lorca, ma anche il Cantico dei Cantici. Chi come me nasce da due diversi fiumi ha più fonti a cui attingere.”
La stessa aria permea il suo libro, dove davanti alle prelibatezze della cucina giudaico-romanesca, lei racconta a suo nipote Elia duemila anni di storia. Da dove nasce questa passione per la narrazione?
“Gli Ebrei sono un popolo di migranti, da sempre, costretti a lasciare tutto da un momento all’altro. E’ anche per questo che inizialmente il Talmud, e la stessa Bibbia, si tramandavano oralmente, non era possibile spostarsi portando con sé i libri. Solo successivamente, intorno al III secolo d.C., si passò alla trascrizione, anche per evitare errori di interpretazione. Va detto poi che nel mondo ebraico la cultura è sempre stato un elemento fondamentale, piuttosto democratico. Gli allievi più meritevoli venivano sempre sostenuti dalla comunità nella prosecuzione degli studi sacri, e così diventavano rabbini. Non era una cultura di classe, come altrove, ma aperta ai più. La Bibbia rimane comunque ancora oggi la più grande raccolta di storie.”
Alla luce di questo, il rogo dei testi, come quello avvenuto a Campo de’ Fiori nel 1553, cosa ha significato per “il popolo dei libri?”
“I roghi dei testi sono durati fino al 1945, ma Hitler si è accanito anche contro “l’arte degenerata” di Klimt, di Otto Dix e di Chagall. L’ebraico in passato era una lingua semisconosciuta, solo Pico della Mirandola e pochissimi altri uomini di cultura la conoscevano, veniva studiato l’aramaico tutt’al più. Era abbastanza facile quindi, facendo leva sull’ignoranza, far passare i testi ebraici per libri di magia. A volte gli stessi marrani, cioè gli ebrei sefarditi convertiti, spesso con la forza, al Cristianesimo, per accattivarsi il clero leggevano i propri testi in modo blasfemo. Bastava cambiare qualche parola e diventavano invettive contro il Cristianesimo, cosa che l’Ebraismo non ha mai fatto. Non ha mai attaccato le altre religioni, magari le ha ignorate, ma mai aggredite. Come può una formica far paura a un elefante? Eppure è successo, perché anche senza armi né un esercito, un intellettuale può essere un nemico. Per Hitler era così, e infatti bruciava i libri.
Durante il fascismo Baudelaire era considerato un rivoluzionario, come Rimbaud, e Garcìa Lorca, omosessuale e amico di Picasso e di Dalì, venne fucilato dai nazionalisti spagnoli.”
E il rapporto tra gli Ebrei e Roma, invece?
“A Roma, anche per la presenza del Papato, la comunità ebraica è sempre stata isolata. Negli anni il ghetto scoppiava con l’aumentare degli abitanti, se si leggono le testimonianze del passato si ha l’impressione che fosse una bidonville, ma quando papa Sisto V nel 1586 parlò di ampliarlo di qualche decina di metri si urlò allo scandalo. Agli ebrei era vietato lavorare, costringendoli alla mendicità, venivano bruciati i loro libri, e per andare al cimitero, che si trovava vicino a Porta Portese, dovevano pagare un dazio. Potevano uscire dal ghetto solo i medici, che erano molto stimati, e infatti i Papi si facevano curare da loro. Uno strano rapporto, insomma, non facile.
In altre città, come a Venezia, il ghetto non era isolato dalla città, e molti lo frequentavano per gli spettacoli o la musica, ad esempio. A Roma le restrizioni erano tali che ci si sposava tra cugini. Solo le famiglie erano allargate, la comunità no. Ecco, direi che le famiglie erano la comunità. Da un lato questo ha preservato, dall’altro ha significato chiusura. Infatti, come sappiamo, i cognomi delle famiglie ebraiche sono sempre gli stessi: Levi, Coen, Calò. Se leggiamo i numeri degli ebrei romani deportati troviamo 25 Tagliacozzo, 10 Coen, 18 Di Consiglio. Intere famiglie annientate. Fa rabbrividire.”
Ebrei sul Tevere
di Giulia Mafai
Gangemi Editore