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Nina

Nina artDue amiche trascorrono un fine settimana d’autunno in una casa di campagna sulla Cassia, a pochi chilometri da Roma. Per caso trovano un manoscritto mai pubblicato che racconta la vita di Nina, figlia di una ricca marchesa capitolina e del principe russo Nikolay.

La lettura si rivela appassionante sin dalle prime pagine, e lascia intravedere i riflessi di un mondo sfarzoso e invidiabile.
L’antefatto è l’escamotage letterario con cui la scrittrice Irene Wolodimeroff introduce il suo romanzo d’esordio Nina, pubblicato da Capponi Editore. Ma la storia scava subito oltre le apparenze di quel mondo, e racconta di un’infanzia accanto a una madre “senza sorriso”, chiamata sempre e solo “Anna Clara”, e di un padre lontano. E’ allora che Nina ha cominciato ad aver paura, sola, in una casa dove di notte un orco abusava di lei, mentre sua madre era troppo presa dal suo malessere per poterla salvare. Quella paura, quel senso di protezione mai conosciuto, continueranno a minare Nina anche da adulta e madre di cinque figli. Rivivrà così altri abusi, questa volta da parte di un orco con le sembianze di uomo gentile.
Con linguaggio immediato, e uno stile quasi diaristico, l’autrice descrive la spirale di violenza che lentamente stringe la protagonista. Maltrattamenti, paura, e una vergogna così profonda da non poter chiedere aiuto. E’ uno scritto di denuncia quello di Irene Wolodimeroff, scarno e tagliente, dove Nina, parlando di se, dà voce alle tante, troppe abusate. Voci vere, ascoltate negli anni di collaborazione con la onlus Tiamodamorire, impegnata a combattere la violenza di genere, e grazie alla quale, ogni Nina ora ha uno sportello di ascolto legale e psicologico.

Signora Wolodimeroff, ci presenta Nina?
I.W. : Fin da bambina sognavo di scrivere un libro, ho sempre pensato che prima o poi sarebbe accaduto. Una mattina mi sono seduta davanti al computer, iniziai a scrivere per tante ore al giorno, la sera ero stanchissima e ricordo quando, anni addietro, deridevo mio marito che trascorreva tante ore seduto a scrivere e poi accusava stanchezza, mi domandavo di cosa fosse stanco. Era una bella stanchezza.
Poi misi insieme, anche piuttosto disordinatamente, tutte quelle pagine e le inviai a molti editori, via mail, senza alcun tipo di presentazione formale o informale. Uscivo da un periodo decisamente difficile della mia vita in cui ho vissuto da sola per qualche anno. Volevo vedere cosa poteva accadere di quelle pagine. Non volevo chiedere aiuto a nessuno per, eventualmente, pubblicarle. Mesi dopo ero a San Pietroburgo e ricevetti una mail che inizialmente lì lasciai distrattamente, dopo qualche giorno la rilessi e rimasi colpita da quelle righe. Una settimana dopo andai ad Ascoli Piceno a conoscere Domenico Capponi, il mio editore. Pensai qualche giorno alla sua proposta, ed ecco Nina.
Quando, dopo due anni dal punto finale, decisi di pubblicarlo decisi anche di non cambiarlo, doveva essere un racconto così come era stato scritto in quel momento, portando le emozioni che provavo nello scrivere quelle parole. Una testimonianza di quanto esiste dietro lo sguardo di tante persone che ci passano accanto. Presentai Nina il 29 novembre a Roma, la mattina successiva entrai in sala operatoria per un intervento chirurgico. Quattro giorni prima, nel corso di una banale mammografia, mi è stato detto “Irene, c’è un nodulo brutto, un piccolo tumore”, non ho aspettato un giorno di più. Non dimenticherò mai quelle parole.
Da quel giorno tutto è cambiato, ho pensato a Nina, a come da bambina aveva vissuto questa malattia in sua madre, alle volte che si era sentita dire “spero ti verrà il cancro” da un uomo che l’aveva risucchiata in una relazione malata, molto malata. Presentando il libro nessuno sapeva e parlando al pubblico dissi “…ho ancora molto da vivere…”, e vivrò ancora molto, vincerò io. Così è nato il mio libro.

Una mamma chiamata sempre e solo “Anna Clara”, un padre emotivamente distante e un orco nel proprio passato. Come rinasce Nina a nuova vita?
I.W. : Smise di aver paura del dolore, quella paura che l’aveva accompagnata per cinquant’anni, non conosceva l’amore genitoriale e tentò di inventarlo verso i propri figli e accanto ad un uomo che la amava, ma doveva ancora sconfiggere l’orco che entrava nella sua camera quando era una bambina, doveva ancora scoprire come è bello e semplice amare e sentirsi amati, scrollarsi di dosso tutti quegli ornamenti di cui spesso ci nutriamo per non essere viste, o di essere viste nella propria vera natura, spogliata di tutto.
Difficile per un essere umano scoprire l’amore, l’enorme potenza dell’amore che mai si è ricevuto nella propria famiglia di origine, in età adulta, soprattutto in questa nostra città ed epoca in cui ci sono tanti palcoscenici dove poter interpretare vari ruoli e quindi dove poter nascondere le proprie fragilità, lasciandole però, purtroppo, alla mercé di chi le riesce a individuare essendo unico nutrimento per l’ego di un narcisista patologico.
Nina decide di vivere, non più di sopravvivere. Non esistono dolori più o meno forti, ogni dolore che si prova in quel momento è il più forte dei dolori. Nina ne aveva una terribile paura, aveva paura del dolore e quindi aveva ben camuffato la sua vita rimuovendo tanti fatti dai suoi ricordi fino a che si trovò a vivere una relazione extraconiugale malata, pericolosa, con un uomo che le fece scoprire l’entità di quelle patologie mentali che vengono ormai catalogate come “narcisismo” e che violentemente la riportarono a dei ricordi sepolti da tempo.
Come fece Nina a riappropriarsi della propria vita? Un giorno stava guidando, pensava, cercava sempre responsabilità fuori da sé a tutti i suoi dolori. Cercava di capire perché gli altri le facevano del male, cercava di non guardare dentro di sé tanta la paura di soffrire ancora così come da bambina. Si fermò, fermò il mondo intorno a sé e piano piano i ricordi che per tanto tempo era riuscita a nascondere arrivarono scivolando nella memoria, così come le gioie anche i dolori sono parte di noi. Nina smise di combatterli, di assecondarli, iniziò ad averne rispetto e lentamente riprese a vivere.

Lei collabora con l’associazione onlus Ti amo da morire, che combatte la violenza di genere. E’ lì che ha tratto ispirazione per il suo romanzo?
I.W. : Oggi esiste un mondo virtuale che può essere una salvezza per chi ha paura di farsi vedere, per chi ha paura di esporsi. Esistono tante associazioni che aiutano le tante, tantissime, persone, donne principalmente, che non hanno il coraggio di andare a denunciare dei soprusi. Attraverso i Social Network capitai in alcuni “gruppi chiusi”, mi incuriosivano quelle storie così simili alla storia che stavo scrivendo. Iniziai a leggere come opera Serenella Sèstito, avvocato e presidente di Tiamodamorireonlus, la conobbi personalmente e da allora non ci siamo più lasciate. Una donna dolcissima ed estremamente preparata legislativamente. Quante tristi storie, quanta paura, quante persone isolate dai parenti, dagli amici. Sono persone sole, così come accade a chi viene intrappolata in relazioni malate. Se ne parla poco, ancora troppo poco, e ancora con poca conoscenza dell’argomento da un punto di vista giuridico e soprattutto con una scarsissima assistenza morale da parte delle istituzioni.
Proprio Nina racconta di quando una domenica mattina alle undici arrivò in un Commissariato di Polizia di Roma perché era stata minacciata dall’uomo da cui stava finalmente fuggendo, e trovò come risposta “Signora deve tornare alle cinque perché ora non c’è il funzionario”. Questo accade ancora troppo spesso, questo porta tante donne a diffidare delle forze dell’ordine. A Nina accadde in una grande città come Roma, potete immaginare cosa potrebbe accadere ad una persona che va a chiedere aiuto in un piccolo commissariato di provincia dove tutti conoscono tutti?
Tiamodamorire ascolta queste persone, le conforta, e le accompagna in dei percorsi anche legali che spaventano molto quando ci si ritrova sole, disperate. Perché sole si resta, si allontanano tutti, amici e parenti, per compiacere la persona con cui si vive una relazione malata.
Attraverso i social network sono entrata in contatto con persone straordinarie, donne sole e disperate come lo era Nina, sono nate grandi amicizie, legami nati dalla sofferenza, quella sofferenza che purtroppo spesso il più della gente cerca di non vedere.

Secondo la sua esperienza, cosa porta una donna ad accettare le violenze di un uomo fino a rischiare la propria vita? Ci sono dei tratti psicologici distintivi o un vissuto particolare?
I.W. : E’ un discorso molto ampio ed io non sono una psicologa o una psichiatra. Indubbiamente oggi esistono delle patologie mentali che possono divenire molto pericolose.
Nina era una ragazzina cresciuta sola, piena di paure, non conosceva l’amore dei genitori e cercava sempre fuori casa un sorriso, una compagnia. Non si arriva a rischiare la propria vita da un giorno all’altro, chi cattura queste persone così fragili è spesso un uomo galante, affabile, che circonda la sua preda di attenzioni e piano piano se ne impossessa rendendola ancor più insicura, rendendola schiava della superiorità che la fa sentire protetta, schiava della paura di soffrire ancora come quando era bambina.
Una bambina non amata non ha mai conosciuto l’amore puro, incondizionato. Se i bisogni emotivi dell’infanzia non sono stati soddisfatti si diviene particolarmente vulnerabili e si tende a ricreare le condizioni emotive in base alle insicurezze che durante la crescita, come nel caso di Nina, l’hanno accompagnata fino all’età adulta. Una bambina non amata in età adulta non disporrà di conoscenze pregresse che la porteranno a fare le scelte “giuste”. Si tende a replicare situazioni già vissute considerandole normale vita quotidiana, temere le critiche, farsi manipolare, sentirsi piccola piccola di fronte alla potenza delle urla, camuffare la realtà agli amici più cari, restare sola nella ragnatela in cui è restata incastrata.
Fino a qualche anno fa leggendo fatti di cronaca di donne picchiate o anche uccise, voltavo pagina frettolosamente, o pensavo come tanti “se l’è cercata”. Mi vengono i brividi oggi quando sento dire queste parole, quando ascolto trasmissioni o leggo articoli in cui si demonizza una vittima, si cerca un alibi al carnefice. Esistono delle tristissime realtà, esistono persone sole, abbandonate, che hanno paura di guardarsi allo specchio tanta la vergogna che provano per ciò che subiscono. Esiste un mondo di soprusi, di violenze psicologiche e fisiche vissute anche dai propri figli, laddove ne esistono, e quegli stessi figli reputeranno normale quella vita, quel modo di sentire e non sentire. Questo mi preoccupa, questi ragazzi che si dicono “ti amo” senza conoscere l’amore, ragazzi che si picchiano e anche uccidono fuori dalle discoteche, ragazzi che cercano aiuto fuori dal proprio nucleo familiare per paura di non essere ascoltati o forse per figure genitoriali impegnate a nutrire il proprio ego.
Se ne parla troppo poco, si parla per luoghi comuni, si sfugge a questa realtà che giorno dopo giorno riempie sempre più le cronache. Io ho raccontato una storia, Nina è una donna che ce l’ha fatta. Non esiste una caratteristica particolare della vittima, esiste una vita in cui manca qualcosa, come un tassello di un puzzle. Non si può insegnare ad amare, non si può spiegare l’amore… l’amore si vive e basta.
Probabilmente sarebbe utile inserire “l’educazione sentimentale” nelle scuole medie, nei licei. Una goccia nell’oceano? Sì, è vero, ma l’oceano è composto da gocce. Ho cinque figli e ho quindi incontrato tanti insegnanti, alcuni umanamente straordinari, altri che tirano a campare. Pensate a tutti quei figli di storie malate, di vissuti violenti, quei bambini che assistono quotidianamente a soprusi vivendoli come normale quotidianità, che quindi tenderanno a replicare da adulti. Se ne parla, ancora troppo poco. Il lavoro di sensibilizzazione operato da Tiamodamorireonlus, così come credo da altre associazioni, sarebbe utilissimo all’interno delle scuole.

Quando si dice “basta” a un rapporto fatto di abusi fisici e psicologici?
I.W. : Arriva il momento in cui si dice “basta”, Nina è stata fortunata, nonostante fosse rimasta sola con un uomo pericoloso, aveva comunque sull’altro piatto della bilancia l’amore dei figli e di suo marito che, nonostante tutto, non l’aveva mai abbandonata. Questo l’ha salvata. Quell’amore che riceveva dai figli e dal marito la salvò, solo allora si rese conto dell’immenso valore di questo sentimento così spesso declamato in modo improprio.
Tante volte tentò invano, e un giorno fuggì definitivamente dalla violenza e lentamente riprese a vivere. Si sentì svuotata, dissanguata, e proprio questo le consentì di ricominciare a respirare un’aria pulita. Nina è fuggita, ha lottato, è precipitata in fondo al pozzo da cui poi lentamente è risalita. Nina si vergognava di ciò che ha vissuto, io ne ho raccontato la storia perché penso che Nina e tutte le persone come lei non devono provare vergogna di un vissuto che le ha fatte rinascere.

Come Nina, lei ha cinque figli. C’è qualcosa che più di ogni altra lei spera non manchi mai nelle loro relazioni interpersonali?
I.W. : Ho cinque figli meravigliosi. Un giorno dissi alla mia primogenita “tesoro ti invidio un po’, tu hai capito queste cose a ventisei anni, io a cinquanta”.
I nostri figli sono delle spugne, assorbono, gioiscono e soffrono. Hanno vissuto alcuni anni difficili accanto ad una madre un po’ distratta dai propri dolori, hanno imparato che tutto si può pensare, proprio tutto. Vedono e vivono oggi il vero amore che unisce me e mio marito, a loro auguro questo, provare ciò che provo io oggi. Spero che le mie figlie incontreranno l’amore, lo percepiranno quando passerà nella loro vita. E’ banale parlare di amore in un’epoca in cui le ragazzine, con estrema facilità, si dicono “ti amo” tra di loro.
L’amore è altro, è appartenenza, unione. L’amore vero, puro, è incondizionato ed eterno. E questo non mancherà nella vita di chi è amato dalla propria famiglia, da chi non ha paura di riconoscere le proprie emozioni.

Nina
di Irene Wolodimeroff
Capponi Editore

 

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