Laurea con centodieci e lode e dottorato di ricerca con borsa. Silvia Dai Prà esce dalla scuola come studentessa e vi rientra come insegnante di una scuola serale con sede a Ostia, in un ecomostro del litorale.
Dalla sua esperienza di precaria nella periferia romana, nascerà Quelli che però è lo stesso, editori Laterza, viaggio tormentato e incredibile nel mondo della scuola. Di chi la fa e di chi la frequenta.
La scuola come teatro di prova per una vita che non riserva molti applausi, e dove insegnanti e studenti sono costretti a recitare la parte del precario.
La Dai Prà, con sguardo acuto e stile immediato, si tiene lontana dal diario scolastico e si avventura in un mondo dove ieri e oggi, giovani e adulti, diritti e ingiustizie franano sotto il peso della precarietà.
Una precarietà che non è solo lavorativa, ma anche esistenziale, e accomuna tutti, in uno scontro che forse non è più solo generazionale, ma di comunicazione. ‘Io penserò mi sembrava intelligente, lei penserà mi sembrava diversa, io penserò che stupidi i giovani, lei penserà che squallidi gli adulti’.
Crani rasati, creste da mohicano, chiome dal colore improbabile, piercing al labbro e al sopracciglio, tatuaggi ovunque e mutande in costante esposizione. Eccoli i ragazzi espulsi da ogni altra scuola e finiti in un ecomostro del litorale romano. Danno il benvenuto alla professoressa Dai Prà con un ‘Con questa ar massimo se famo du’ cannette!’
Con i loro bicipiti pompati, inneggiano al Fascismo senza sapere né cosa, né quando sia stato: ‘Tipo dopo gli illuministi?’ La loro non è un’adesione ideologica, ma la ricerca vaneggiante di identità (‘l’Italia agli italiani’), e di ordine (‘perché cor Duce funzionava tutto’). Fanno a botte con gli stranieri perché, combattendo il diverso, si sentono più normali.
Tra loro ci sono ragazzi sbandati e carabinieri tornati sui banchi per migliorare la loro posizione. Si scambiano frasi come ‘guardie infami’ e ‘basta, noi siamo qui per studiare’, calati in un gioco delle parti che un giorno forse porterà gli uni ad arrestare gli altri.
E’ questa la loro realtà. Non c’è spazio per scene da film americano, come quello in cui Michelle Pfeiffer viene mandata a insegnare in un quartiere difficile e riesce a smuovere i ragazzi al suono della musica di Bob Dylan.
Non è facile comunicare quando gli unici riferimenti culturali sono Gigi D’Alessio e Moccia. Spranghe e fanciullino pascoliano non vanno d’accordo: ‘E i Nirvana? Ti pare prof che ci devi fare ascoltare la musica dei matti? Già la roba che ci fai leggere … ma uno non può fare lo scrittore senza ammazzarsi?’
Temi dove non c’è traccia di punteggiatura, scritti come lunghi sms, con un’ortografia incomprensibile, quasi in un’altra lingua.
Sono ‘quelli dell’obbligo’, cioè studenti che rimangono a scuola fino a 16 anni per evitare l’intervento dei servizi sociali. Buttarli fuori significa consegnarli alla strada, perché le loro famiglie sono assenti.
Questo fa della scuola un reale centro educativo o un diplomificio? La bocciatura è sempre un atto di giustizia, anche se meno studenti significa meno finanziamento pubblico e, solo per chi se lo può permettere, diploma quasi assicurato in un istituto privato?
‘Perché la scuola è fatta per quelli che, già alla nascita, sono programmati per rimanerci?’, si chiede la Dai Prà. E a interrogarsi non è solo una professoressa, ma una giovane donna alla ricerca di un ruolo autentico, lontano dal modello crocerossina. Niente aria da vittima sacrificale, né da educatrice autoritaria. La ‘pressorè’ non entra in classe con l’aria di chi ha buttato una brillante carriera universitaria per milletrecento euro al mese, ma di chi dopo il gong della campanella spalanca la porta e si prepara al match.
Qualche punto si porta a casa: ‘Ho visto i ragazzi infilare i libri di Pasolini e di Cassola, di Conrad e della Morante negli zaini con sopra scritto LAZIO MERDA o MANILA + BRAIAN, dopo che ho sentito Sheila canticchiare De Andrè e non Gigi D’Alessio‘.
Quelli che però è lo stesso
di Silvia Dai Prà
Editori Laterza