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La Costituzione spiegata a mia figlia

la_Costituzione_spiegata_a_mia_figlia_artUna domenica di pioggia. Magari si può andare al cinema a vedere Pinocchio, ma la gita non si può rimandare a lunedì : bisogna andare a scuola e al lavoro.
Perché?”, chiede una bambina al papà. “Perché lo dice la Costituzione.”
Comincia così, ne La Costituzione spiegata a mia figlia, edizioni Einaudi, il viaggio nell’atto su cui si fonda ogni Stato democratico. A rispondere, è Giangiulio Ambrosini, che per qualche ora smette le vesti di magistrato e veste quelle di un papà che spiega alla propria figlia com’è nata la nostra Carta fondamentale e come tutela la vita di ognuno di noi.
Dal principio di uguaglianza ai diritti inviolabili della persona, dal diritto allo studio a quello al lavoro: diritti che sono anche doveri, perché le esigenze del singolo non possono mai prescindere da quelle dell’intera società. La sovranità appartiene infatti al popolo, e spetta ai cittadini esercitarla, nel rispetto delle leggi, partecipando alla vita civile e democratica del paese.

La Costituzione riguarda quindi ogni elemento della nostra esistenza, anche Pinocchio, perché la prima cosa che fa quando da burattino diventa bambino, è andare a scuola, suo diritto fondamentale.
Prima di cominciare, una sola raccomandazione al papà : “Devi prepararti bene, perché mi sembra che tu non sia sempre chiaro, soprattutto con te stesso”.

Pubblichiamo qui di seguito alcuni passaggi del libro per gentile concessione della Casa editrice Einaudi

“Tu sai che il fascismo è stato abbattuto, al termine di una guerra disastrosa, dalla resistenza popolare e dall’intervento di potenze straniere che combattevano contro la follia dei nemici e della democrazia.

E’ qui che è nata la Costituzione?
Hai capito perfettamente. Una volta liberata l’Italia dal fascismo e dalla invasione dei nazisti, i governi nati dalla Resistenza hanno voluto darsi una nuova Costituzione. E sono stati tanto democratici da chiedere ai cittadini tutti, uomini e (queste per la prima volta ammesse al voto), con un referendum, anzitutto se volevano continuare ad essere sudditi di un Regno o cittadini di una Repubblica, e nello stesso tempo di votare per i loro rappresentanti in Parlamento.

Ha vinto la Repubblica.
Per un pugno di voti.

E dopo che cosa è successo?
Sono successe molte cose. I rappresentanti eletti lo stesso giorno in cui si è tenuto il referendum, il 2 giugno 1946, dal popolo, da tutti i cittadini, uomini e donne, hanno incominciato a discutere su come costruire il nuovo Stato repubblicano. Il dibattito è durato a lungo ed è stato molto importante. Alla fine i costituenti hanno nominato al loro interno una Commissione di ‘saggi’, con il compito di scrivere il testo della nuova Costituzione. I lavori sono durati quasi un anno e mezzo e finalmente il 1° gennaio 1948 la Costituzione è entrata in vigore.

Sono stati tutti d’accordo?
E’stato un avvenimento eccezionale. Cattolici e laici, comunisti e liberali, monarchici e repubblicani, socialisti e separatisti in nome di realtà locali, si sono accordati, sia pure con qualche compromesso, per dare al nostro Paese un testo fondamentale destinato a durare a lungo, in cui hanno scritto quali sono i diritti fondamentali e irrinunciabili dei cittadini e come è modellato l’ordinamento dello Stato, ossia i rapporti fra i massimi organi del potere politico, amministrativo e giudiziario.

Insomma, c’è stato un accordo generale?
Direi proprio di sì. E sai quale è stato il successo maggiore? Che praticamente tutti gli eletti dal popolo hanno votato quel testo. Che non è un testo immodificabile. Si può cambiarlo solo se il Parlamento approva le modifiche con doppia votazione, a tre mesi di distanza l’una dall’altra, di entrambe le Camere, la seconda volta con una maggioranza speciale, e se non c’è questa speciale maggioranza si deve fare un referendum fra tutti i cittadini per approvare o respingere la modifica. E’ per questa ragione che la Costituzione viene definita ‘rigida’, rispetto allo Statuto albertino che, (…), era ‘flessibile’. Ciò vuol dire che cambiarla si può, ma non basta una semplice maggioranza parlamentare per farlo.

Tutte le norme della Costituzione si possono cambiare? Anche quelle che dicono che lo Stato è repubblicano?
No, questo no. C’è una norma, l’ultima della Costituzione, che stabilisce che la forma repubblicana non può essere modificata. Ma io voglio dirti qualche cosa di più. Anche i diritti fondamentali dei cittadini non possono essere cancellati o modificati in peggio. Non si possono abolire il diritto alla vita, alla libertà personale, alla libertà di riunione o di associazione, alla libertà religiosa e così via, anche se non è scritto espressamente nella Costituzione. Se le norme che garantiscono questi diritti fossero cancellate o altre nuove li limitassero, benché in modo non contrastante con le regole ‘formali’, si sarebbe in presenza di un vero e proprio ‘colpo di Stato’. Ci sono diritti, come ho detto irrinunciabili e fondamentali, che garantiscono la democrazia.
Non a caso dei primi 54 articoli della Costituzione, che comprendono i principi fondamentali e i diritti e i doveri dei cittadini, solo uno è stato modificato per garantire maggiormente la condizione della donna.
E’ diverso, almeno in parte, quello che riguarda, invece, i rapporti, la composizione e i poteri dei massimi organi dello Stato.

E la scuola (…)?
Finalmente ne parliamo! La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. L’onere grava sulla collettività, perché è interesse generale che i cittadini, e così pure gli stranieri che risiedono nello Stato – non a caso la Costituzione adotta la parola ‘tutti’ – abbiano un minimo di strumenti educativi e conoscitivi che consentano loro di essere partecipi e consapevoli.
Lo studio è un diritto e al tempo stesso è un obbligo, perché se è interesse del singolo ricevere un minimo di istruzione, interessa altrettanto all’intera società che una parte dei suoi componenti non sia ‘emarginata’ a causa della mancanza di strumenti conoscitivi e critici e possa essere sfruttata o usata come massa di manovra da parte di soggetti o gruppi privi di scrupoli morali.
E’ vero che la Costituzione si preoccupa principalmente della istruzione cosiddetta ‘inferiore’, ossia quella considerata minima. Ma non esclude il raggiungimento dei gradi superiori degli studi alle persone prive di mezzi economici adeguati, purché ‘capaci e meritevoli’.

Il lavoro è un diritto, non è quindi un dovere come lo studio?
Questo è vero soltanto in parte. La stessa norma che proclama il diritto al lavoro aggiunge che ‘ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società’.
E’ vero che nella norma non si parla di ‘lavoro’ in senso stretto, infatti il concetto di ‘attività’è più ampio e ad esso si abbina il concetto di ‘funzione’. Il significato di questa disposizione si può leggere in diversi modi. Quello che a me pare migliore è che la Costituzione ha voluto dare riconoscimento non solo al lavoro dipendente, ma ha voluto valorizzare una serie di energie umane non strettamente finalizzate alla produzione di beni o servizi, le quali si esplicano in manifestazioni artistiche (pittura, scultura, musica, letteratura, danza, spettacolo, ecc.),o in impegno religioso, o ancora in attenzione verso le situazioni di disagio fisico o sociale (quello che in generale si definisce ‘volontariato’). Sono queste le attività che concorrono, insieme al lavoro che è il fondamento del progresso materiale, al progresso culturale, civile e morale (che la norma costituzionale ha sintetizzato nella parola ‘spirituale’ – non ancorandola al solo aspetto religioso) del Paese.
E non è detto che il lavoro, nel senso proprio del termine, non possa integrarsi con il volontariato, con l’impegno artistico, con la vocazione religiosa.
Per questo motivo la norma di cui stiamo ragionando fa riferimento ‘alle proprie possibilità e alle proprie scelte’. Sarebbe riduttivo e privo di base concreta ritenere che ognuno deve poter svolgere il lavoro che più gli confà o che più gradisce. Ciò è evidentemente auspicabile, ma si scontra con le esigenze dell’economia e del mercato, che impediscono la realizzazione di una ‘società perfetta’ (del tutto ideale) a misura della volontà e della propensione dei singoli individui.
Più modestamente la disposizione costituzionale sollecita come ‘dovere’ – sulla base del principio di solidarietà – l’impegno di ciascuno di contribuire principalmente con il lavoro, ma anche con altre attività (di cui ti ho detto) o attraverso funzioni (di cui si è investiti attraverso cariche pubbliche e in particolar modo elettive) a quella crescita, a quella evoluzione, a quella trasformazione in meglio che si definiscono con una sola parola ‘progresso’.”

© 2004 Giulio Einaudi Editore s.p.a. – Torino –

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