Benzine art

Benzine

Benzine artC’è qualcosa di potenzialmente incendiario in Benzine, l’ultimo romanzo di Gino Pitaro (Edizioni Ensemble). Non si deve solo al titolo, ma a una narrazione che scorre da Roma alla periferia nord-est, andata e ritorno, tutti i giorni. Tra treni che si bloccano, furti di rame e allagamenti, il pendolarismo diventa il punto di osservazione di una trasformazione sociale in fermento. Al di qua dei finestrini cambiano i volti delle persone, gli accenti, le lingue, fuori, fabbriche dismesse si alternano a nuovi agglomerati multi-etnici.

E’ una Roma che dal suo centro originario, immutato ormai solo nelle cartoline, si è allargata a macchia d’olio, o di benzina, verrebbe da dire, inglobando quartieri, mescolando etnie. Osservatore e protagonista di questo panorama urbano e umano è Luigi, ricercatore universitario trentacinquenne che per sbarcare il lunario lavora in un call center. Valvassino dei professori in un mondo accademico medievale, partecipa all’occupazione della Sapienza tenendo nascosto ai compagni il suo impiego, nota stonata ma necessaria in una realtà che lo vorrebbe gandhiano al tempo dei contratti atipici nelle multinazionali. Stretto tra l’attrito delle proprie aspirazioni e l’urgenza del quotidiano, Luigi vive un presente che non ha mantenuto le promesse, incontrollabile e imprevedibile, come l’evento che alla fine stravolgerà l’esistenza sua e dei suoi scombinati amici, tingendola di giallo.
In Benzine Gino Pitaro delinea un nuovo profilo di Roma e dei suoi abitanti. Individua il combustibile della trasformazione sociale in atto, cosciente che possa portare energia ma anche distruzione, lasciando intatte però l’ironia e la leggerezza di Luigi: “Anche questa è Roma e io la amo. E amo il mio quotidiano western tiburtino.”

Pitaro Gino artGino Pitaro, il suo romanzo Benzine scorre sui binari che collegano Roma alla periferia, scandendo la vita quotidiana della città. Attraversa quartieri trasformati, incontra lavoratori atipici, parla con accenti stranieri. Che panorama è?
GP: La periferia di Roma, in particolare l’area nord-est, ma non solo, costituisce il vero laboratorio sociale e culturale della capitale, della nuova città metropolitana, che istituzionalmente oggi abbraccia buona parte della provincia. Laboratorio lo definiscono anche i politici quando c’è qualche criticità. Io ho sentito dire queste testuali parole: ‘voi siete la Roma sperimentale, quella del futuro!’. Al di là di queste considerazioni elettorali, sincere o meno, c’è molto del vero. La Roma più verace è quella a ridosso del raccordo anulare e che si sviluppa oltre. Il centro di Roma è fatto di atelier, uffici altolocati, griffe, società, negozi artigianali di alta qualità, ristoranti e locali di grande pregio – anche quelli più popolari -, mercanti d’arte, rappresentanze di multinazionali. Cose anche queste importantissime per la vita della capitale. Nel grande centro di Roma ogni anfratto è una storia importante. E’ nella periferia che emergono i contrasti e le adiacenze: la palazzina popolare che sta accanto alla villa a due piani del manager, perché con lo stesso prezzo lui acquistava un appartamento ai Parioli con molte spese di condominio, invece in periferia ha una domus patrizia; l’impiegato o l’artista che convivono con somali e afgani sullo stesso pianerottolo, e condividono problemi e adempimenti; l’inquilino agli arresti domiciliari che abita accanto a un guru indiano, ecc. Questa mescolanza è presente in centro solo nel quartiere Esquilino e in zona Termini, poi coinvolge anche inizialmente le direttrici di tre consolari, Prenestina, Tiburtina e Casilina, mentre i successivi cerchi concentrici amplificano gradualmente questa dimensione ovunque. Sia chiaro, anche altre zone centrali sono interessate da queste dinamiche, ma in misura minore. Di fatto la periferia costituisce un corpus di risorse umane, intellettuali e imprenditoriali notevole. Roma è destinata a trarre linfa da essa, com’è normale che sia. E’ un processo da governare bene, con attenzione alle dinamiche di degrado.

Luigi, il protagonista, è l’emblema di una nuova generazione di lavoratori. Laureato in lettere e ricercatore alla Sapienza, dove partecipa attivamente al movimento studentesco, è però impiegato in un call center. Come vive la sua condizione?
GP: Luigi ha il pregio di essere un combattivo, dotato di ironia e leggerezza. Sa bene che per sopravvivere occorre anche farsi attraversare dalle cose che accadono o lasciarsele scivolare, mantenendo saldi intenzioni e scopi. A Roma è una tecnica di sopravvivenza, non dettata dall’inaffidabilità, ma semplicemente dal cercare di stare a galla, magari mantenendo ferma una rotta, la propria. Questo atteggiamento può determinare problemi, in ogni caso non sarebbe così auspicabile. A volte però è una strada obbligata doversi relazionare in modo variegato, proponendo cose differenti a persone diverse per risolvere una stessa e identica necessità comune a tutti. In altri casi occorre essere attendisti. Pure tutto ciò è una palestra sperimentale di rapporti e dinamiche che possono investire il mondo delle relazioni quanto quello del lavoro. Creatività e adattabilità sono gli imperativi.

Il libro, a partire dal titolo stesso, ha qualcosa di incendiario, intenso. Nasce dalla sua storia personale?
GP: io scrivo solo di ciò che conosco, poi nella forma narrativa tutto può essere trasposto su un piano di rielaborazione, ma sempre aderente ad aspetti che conosco profondamente. ‘Benzine’ è propellente, ed è al plurale, perché di tanti ‘idrocarburi sociali’ si tratta, ma anche perché nella storia c’è un accenno specifico ad alcune questioni che hanno a che fare con le compagnie petrolifere. Simbolicamente ‘benzine’ rappresenta la duplice natura di tutto ciò che è carburante, ovvero energia, ma anche possibilità di distruzione, di fare terra bruciata. Forza motoria e spirito incendiario. Mi viene in mente solo ora che alcuni anni fa a Roma c’era una bella manifestazione culturale che si chiamava ‘Enzimi’, la quale dava spazio e possibilità a tante forze creative, poi siccome funzionava l’hanno chiusa o rimaneggiata dopo qualche edizione. Mi piace questo parallelismo estemporaneo, ma ‘Benzine’ rende più chiara la dicotomia generativa e distruttiva, crinale sul quale si muove la vita di periferia. La storia poi prende piede fino a confluire in un giallo, un po’ come del carburante silenziosamente versato che finisce per essere detonante e risolutivo, con l’ausilio di una miccia. Come l’Aniene, che è un fiume che a Roma e provincia te lo trovi dove non te lo aspetti e poi all’improvviso sfocia nel Tevere. ‘Benzine’ e l’Aniene si assomigliano. Devo aggiungere con soddisfazione che sto trovando il consenso della critica quanto dei lettori.

Benzine è anche un romanzo di denuncia sociale, dove il sistema universitario è “medievale”, le persone sono “risorse umane”, e i lavoratori “a gettone”. Eppure sullo sfondo c’è posto per la lotta studentesca, per la contestazione verso una società sempre più ingiusta. Pensa che nella nostra realtà individualistica una reazione collettiva sia ancora possibile?
GP: Il grande problema di tutti i movimenti è quello che poi succede quando si spengono i fari dell’attenzione, con o senza un risultato raggiunto, quando nella continua necessità di arrangiarsi e di trovare una migliore collocazione si fanno quei compromessi che non si dovrebbero stringere. Il compromesso non ha una connotazione per forza negativa se c’è la necessità di mediare tra posizioni differenti, ma la ha invece quando a un certo punto si cerca quell’appoggio che permette di ‘sistemarsi’. L’individualità quindi solo in questo caso assume un peso negativo. La famosa ‘questione morale’ di Berlinguer è stata storicamente travisata. Lo statista, come altri – anche di orientamento differente -, non intendeva porsi sul piano della legittimazione partitica della moralità pubblica e sociale, ma molto semplicemente osservava un numero crescente di persone che per trovare uno sbocco si rivolgeva tanto ai sindacati quanto al meccanismo di tesseramento dei partiti. Quando una persona si rivolge non alle istituzioni o realtà pubbliche e private per risolvere i suoi problemi, secondo modalità garantite a tutti, ma a qualcuno che in cambio di qualcosa lo aiuti a risolverli, allora nascono le complicazioni. Questo qualcosa in epoche di ‘vacche grasse’ è stato sempre la costituzione di un ‘feudo elettorale’. Oggi i movimenti sono trasversali, per età e in parte per collocazione sociale. Si vedono cortei dove gli studenti sfilano con i pensionati. Nell’università ci sono ricercatori e assegnisti precari di quaranta o cinquanta anni, e oltre. Ora, non voglio fare l’apologia della ‘santità della cittadinanza’, in quanto ritengo purtroppo momentaneamente comprensibile chi cerca in un modo o nell’altro di farsi spazio, il fatto è che non ci si arresta a ciò: abbiamo persone che poi non amano il proprio lavoro, cercano di evadere come possono i piccoli costi della collettività, a cominciare dalla tassa sui rifiuti, e continuano ad arrabattarsi nonostante la ‘sistemazione’. Qualcosa però sta cambiando già da un po’. Sono moderatamente ottimista, ma c’è tanto da fare.

Benzine
di Gino Pitaro
Edizioni Ensemble

Gino Pitaro è nato a Vibo Valentia nel 1970 e vive a Roma. Ha lavorato come redattore, articolista freelance e documentarista indipendente. Nel 2011 ha pubblicato I giorni dei giovani leoni (Arduino Sacco Editore), con buoni riscontri di critica e una delle opere underground più lette nel 2012. Babelfish, racconti dall’Era dell’Acquario (Ensemble, 2013), ha ricevuto sei premi letterari nazionali. Benzine (Edizioni Ensemble) è il suo nuovo romanzo.

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