Con La sumera (Fazi Editore), Valentino Zeichen, uno dei maggiori poeti italiani, passa per la prima volta dal verso alla prosa.
Cala i protagonisti, Ivo, Mario e Paolo, in una Roma degli anni ’80 ristretta tra la via Flaminia e la Galleria d’Arte Moderna. Legati dall’amicizia e dall’arte, i tre sono dei “vecchi ragazzi” che trascorrono le loro giornate tra musei e passeggiate al centro della città e ai margini dell’esistenza. Il loro essere artisti non li colloca in un preciso ruolo sociale o personale, ma li mantiene nella dimensione dell’estraneità. La ricerca della bellezza, in un dipinto o in uno scorcio, rimane sempre fine a se stessa, incapace di scuoterli, e l’atto creativo, quasi pretestuoso, non sa mai infondere il soffio vitale.
Lo spazio in cui Ivo, Mario e Paolo si muovono ha confini immaginari ma invalicabili, come quelli del loro agire. Circoscrive pochi isolati in cui si concentrano arte e storia, delineando un mondo in cui “è difficile fare qualcosa di nuovo, si rinnova il vecchio”. Il tempo stesso si trascina dissipato, ozioso, animando il romanzo di uno spirito fitzgeraldiano a cui nessuno può dirsi completamente estraneo. Ci si gira indietro e le cose appaiono ormai lontane, sbiadite dalla loro fugacità. L’età dei sogni lascia spazio a quella della maturità, che però, dopo il crollo delle ideologie, ha poco su cui reggersi se non un secco individualismo: “Ogni generazione ha bisogno di campioni fallimentari per documentarsi su ciò che non ha funzionato. Noi siamo questo, facciamo un lavoro da cavie, promuoviamo gli studi sociologici, stimoliamo la ricerca, ti pare poco?”
Lo scuotimento arriva in un giorno di sole, sulla scalinata della Galleria d’Arte Moderna. Appoggiata a una colonna c’è la sumera. Un po’ scultura un po’ dipinto preraffaellita, la donna, dai tratti esotici, viene desiderata e contesa dai tre amici. E’ seducente, quasi immateriale nel suo continuo apparire e scomparire, dotata di un fascino che tiene in parte per se e non esercita mai fino in fondo. Non ha un nome, e in tutto il romanzo verrà chiamata “Lei”, appellativo di un femminile dai due volti, reale e immaginario. La sumera è così il capolavoro possibile, la tela bianca di fronte a cui si troveranno i protagonisti, musa ispiratrice e prova senza appello.
Nella sua prima prova narrativa Valentino Zeichen descrive la sconfitta di una generazione estranea a se stessa, afflitta da una nevrosi da assenza di scopo: “A tuo illustre parere, noi a che ruolo momentaneo siamo stati asserviti nella vita?”. “A quello dell’inutilità.” La sua è una narrazione veloce, fatta di dialoghi immediati e di immagini fulminee, cesellata dalla mano del poeta. La ricercatezza linguistica è accompagnata dall’ironia, in uno stile che esprime temi esistenziali e terreni, tenendo a bada i voli pindarici sempre in agguato. L’autore definisce La sumera un romanzo decadente. Se ne trova conferma nel sentimento che attraversa le pagine, inafferrabile e fugace come il tempo. Sicuramente, anche poetico, di un lirismo apparentemente lieve, che sa depositarsi nell’animo di chi legge, e che ha valso a Zeichen da parte di Alberto Moravia, la definizione di “eco di Marziale nella Roma contemporanea.”
La sumera
di Valentino Zeichen
Fazi Editore
Valentino Zeichen è ritenuto uno dei più importanti poeti italiani viventi. Nato a Fiume ma romano d’adozione, ha pubblicato numerose raccolte di poesie, tra cui Area di rigore (1974), Ricreazione (1979), Museo interiore (1987), Gibilterra (1991), Metafisica tascabile (1997) e Neomarziale (2006). Una raccolta delle sue maggiori opere si trova negli Oscar Mondadori. Per Fazi Editore ha pubblicato Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio (2000), Aforismi d’autunno (2010) e Il testamento di Anita Garibaldi. La sumera è il suo primo romanzo.