C’è una casa in cui molti vorrebbero aver vissuto, almeno per un po’, specialmente se per motivi anagrafici non possono ricordare gli anni ’70. E’ descritta da Clara Sereni nel suo ultimo romanzo Via Ripetta 155 (Giunti Editore) e a partire dal 1968 ha ospitato per circa un decennio l’autrice, allora poco più che ventenne.
Attraverso i quattro piani di scale a chiocciola, la sua sala con il soffitto a cassettoni è stata il punto d’incontro di un numeroso gruppo di giovani che condividevano il sogno di un futuro come “un cantiereaperto” con “molte e grandi cose da fare”.
Quella casa, in un tratto di strada che tutti pensano appartenga già a via della Scrofa, negli anni si anima dei valori sociali e politici che cambieranno una generazione e un Paese. Gli scioperi, i ciclostili, le manifestazioni, sono tutti momenti condivisi che porteranno a diritti collettivi fondamentali, come lo Statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio e quella sull’aborto.
“Mi sentivo in un mondo possibile anche per me” scrive Sereni, e tra le sue parole si legge la frattura tra un “noi” che ha provocato il cambiamento e un “io” oggi sempre più ripiegato su sé stesso. Impossibile non provare un po’ di rimpianto per un mondo dove tutto sembrava realizzabile, e non sentire la passione dell’autrice, vissuta però sempre con spirito critico Fino a che un giorno “a pochi passi da me uno con la faccia coperta puntò a braccio teso la pistola e sparò”. Comincia così il periodo buio del terrorismo, negazione e tradimento degli ideali libertari del ’68, e ferita profonda di cui il Paese porta ancora i segni.
Signora Sereni, c’è una frase, nel suo romanzo, che segna la distanza incolmabile tra l’oggi e gli anni ’70, specialmente per chi non li ha vissuti in prima persona: “Il futuro era un cantiere aperto, molte e grandi cose da fare senza timore di infortuni.” Qual è il suo ricordo di quel decennio?
CS: Di speranze e di utopie, siamo stati una generazione fortunata. Davvero ci sembrava di poter cambiare il mondo, che tutti i mutamenti radicali fossero a portata di mano sia sul piano personale che su quello collettivo. Mutamenti, peraltro, ce ne furono eccome, anche se oggi ci se ne ricorda poco: nell’arco di un decennio l’Italia si trasformò da Paese retrogrado e bigotto in un Paese che almeno cominciava ad essere in linea con l’Occidente. Basti pensare a leggi come quelle sul divorzio, l’interruzione volontaria di gravidanza, la legge Basaglia per la chiusura degli ospedali psichiatrici, la riforma sanitaria, lo Statuto dei lavoratori. Allora ci sembravano piccole cose, insufficienti, ma a ripensarle ora… Solo che poi quel cammino si è arrestato, ha preso altre strade, e ora resta poco anche di quel che ritenevamo insufficiente. E l’Italia, grazie al terrorismo, alle stragi, alla corruzione, non è mai diventata quel “Paese normale” del quale ci sembrava di non poterci accontentare. Ma non è vero, come spesso si dice, che il ’68 ha prodotto gli anni di piombo e nient’altro: gli anni di piombo certificarono il fallimento di molte cose, ivi compresa l’incapacità del ceto politico di dialogare con i movimenti.
Lei scrive di non rimpiangere i suoi vent’anni, ma che “la nostalgia è sempre soltanto per quel noi, spentosi via via e divenuto ora isolamento, ognun per sé e nessun Dio per tutti.” Come ha vissuto l’affermazione di un mondo sempre più individualista e refrattario al cambiamento?
CS: L’ho vissuto e lo vivo male. Il “noi” era un super-io talvolta troppo condizionante e giudicante, ma anche un enorme argine ad angosce e frustrazioni, che trovavano nel collettivo un proprio contenimento. E i comportamenti individuali erano in qualche modo controllati e guidati: anche troppo, ripeto, ma ora a giudicare ciascuno di noi è rimasta solo la faccia che ti vedi allo specchio la mattina, e non sono neanche molti, mi sembra, quelli che si sottopongono a questo confronto.
Perché sostiene di non aver visto tante cose, come ad esempio il femminismo, “che pure cambiò anche me ma non me ne accorsi”?
CS: Perché è stato effettivamente così. Ho sfiorato tante cose, ma di nessuna sono stata davvero all’interno, nel cuore pulsante, anche a livello di elaborazione teorica.
La Roma degli anni ’70 era un ambiente di grande fermento culturale, per la letteratura, il cinema, la politica. C’è qualcuno che è stato particolarmente importante per la sua formazione?
CS: Mi viene da pensare più a grandi aree – la politica, il cinema, la musica – che non a singole persone. Proprio perché quasi tutto si faceva insieme. Poi, certo, una grande spinta, formativa e non solo, mi è venuta da Stefano Rulli, che è stato il mio compagno per trent’anni. Ma tanti semi erano già stati gettati prima, in un gran crogiuolo di sollecitazioni che arrivavano da ogni parte: non solo dall’Italia, ma direi dal mondo, perché tante erano anche le presenze, nelle nostre vita, di persone provenienti dai Paesi più diversi del mondo.
Via Ripetta 155
di Clara Sereni
Giunti Editore
Clara Sereni è nata nel 1946 a Roma, dove ha vissuto fino al 1991, anno in cui si è trasferita a Perugia. E’ una delle più importanti scrittrici italiane, oltre ad essere giornalista e traduttrice.
Ha esordito con Sigma Epsilon (197 4), testimonianza del suo impegno politico giovanile, cui sono seguiti: Casalinghitudine (1987), Manicomio primavera (1989), Il gioco dei regni (1993), Eppure (1995), Taccuino di un’ultimista (1998), Passami il sale (2002), Le merendanze (2004), Il lupo mercante (2007) e Una storia chiusa (2012).
Il suo impegno si rivolge anche al sociale. E’ infatti presidente della fondazione Città del sole, che si occupa di disagio mentale. Da questa esperienza sono nati i libri Mi riguarda (1994), Si può! (1996), Amore caro (2009), e il docufilm Un silenzio particolare (2004), girato dal compagno Stefano Rulli.
Dirige per l’editore ali&no la collana “le farfalle”.
La foto di Clara Sereni è di Marzia Souza