Due perfetti sconosciuti art

Due perfetti sconosciuti

Due perfetti sconosciuti artRoma, quartiere universitario di San Lorenzo. In un appartamento simile a tanti altri, abita una signora dai capelli bianchi che assomiglia un po’ a Christine Lagarde. Si chiama Odetta, affitta stanze agli studenti de La Sapienza, e a casa sua è appena saltata la luce. E’ per questo che al suo campanello stanno per suonare un elettricista e un ragazzo in cerca di un posto letto. Sono Due perfetti sconosciuti, come recita il titolo del romanzo d’esordio di Michele Tortorici pubblicato da Manni Editori.
Con loro Odetta, donna abituata più alla compagnia dei che delle persone, si intratterrà solo per un paio d’ore, ma parlerà di sé e del proprio mondo come non ha mai fatto con nessuno. Alla fine, oltre alla propria parcella, l’elettricista se ne andrà anche con una riflessione sul “circo” della vita, e lo studente, con il bisogno di farsi “qualche idea del mondo”.
Dopo una vita dedicata alla poesia, Michele Tortorici in questo romanzo d’esordio consegna ad Odetta il filo del discorso, che si dipana pagina dopo pagina in una conversazione vivace e impertinente. Il lettore, interlocutore immaginario, diverrà il depositario del più intimo dei segreti, come succede solo con un perfetto sconosciuto.

Potrebbe essere una giornata qualsiasi quella di Odetta. Ha un appuntamento prima con l’elettricista e poi con uno studente fuori sede in cerca di una stanza. Invece, cosa succede?
MT: Ecco, questo è il punto: non succede niente. Nel libro non è descritta una storia, ma è rappresentata una persona attraverso due ore di una giornata che, a parte un guasto all’impianto elettrico, per il resto è quasi del tutto ordinaria. Queste due ore, più o meno da mezzogiorno all’una e dalle tre alle quattro del pomeriggio, sono, si potrebbe dire, filmate “in presa diretta”: la lettura del libro dura infatti, più o meno, quanto durano le due conversazioni rappresentate. Ma ora esco dal paradosso. Non è del tutto vero che non succede niente. In quelle due ore, in particolare nella seconda, mentre dialoga con lo studente, Odetta è portata a riflettere su se stessa. Parlando con l’elettricista, lei aveva ostentato una gran sicurezza a proposito della propria capacità di conoscere gli uomini. Ma dopo le vengono dei dubbi. Lo studente, più per ingenuità che per sfacciataggine, fa a Odetta delle domande che la spingono a dare risposte, diciamo così, compromettenti. E lei non esita a compromettersi perché è abituata a riflettere e in quei momenti riflette sul proprio stesso modo di conoscere. Alla fine è costretta ad ammettere implicitamente, a se stessa prima ancora che al suo interlocutore, uno sconosciuto al quale ha aperto la porta sì e no un’ora prima, che la sua conoscenza degli uomini, almeno in un caso decisivo, si è dimostrata proprio scarsa. Ecco che cosa è successo: in quelle due ore Odetta ha scoperto qualcosa di nuovo a proposito di se stessa e di conseguenza è cambiata. Se il giorno dopo tornasse l’elettricista, Odetta lo tratterebbe in modo decisamente diverso.

Odetta ha collezionato buone letture e tante esperienze di vita. Si sente dai suoi discorsi, un po’ impertinenti ma mai casuali. Perché parla con “due perfetti sconosciuti” come non ha mai fatto neanche con la sua migliore amica?
MT: Appartengo a una generazione che frequentava a suo tempo i treni con gli scompartimenti separati gli uni dagli altri e, a loro modo, con una atmosfera piuttosto intima. Quando finivo uno di quei viaggi, se appena appena era più lungo di due o tre ore, sapevo tutto dei miei vicini di posto. Parlare con degli sconosciuti è liberatorio. È più facile ammettere i propri errori con uno sconosciuto anziché con un amico. Tanto più se lo sconosciuto è un buon ascoltatore: e, nel nostro caso, è proprio così. La stessa Odetta si stupisce del fatto che l’elettricista, con tutta la sua rozzezza, vera o presunta, ascolti con attenzione quello che lei dice. A un certo punto è costretta ad ammettere: «Sembra che stia concentrato su quel groviglio di fili, ma sta a sentire. Eccome se sta a sentire!». E così lo studente. Sta a sentire Odetta, eccome se la sta a sentire! E fa le domande giuste. Il fatto che Odetta si confidi con lui è perciò assolutamente naturale. Proprio come succedeva in quegli scompartimenti dei vecchi treni.

Che cos’è “l’immobilità della perfezione”?
MT: È quello che tutti noi pensiamo della perfezione. Non c’è bisogno di grandi studi filosofici, anche se Odetta è convinta, giustamente, che uno studente di Filosofia possa capirlo meglio di uno che questi studi non li ha compiuti e lei stessa dimostra che certe letture, certe “buone letture”, le ha fatte. Tutti noi pensiamo che, se un ente, cioè “una cosa che è”, è perfetta, ogni cambiamento può portare quell’ente soltanto verso l’imperfezione. “Ciò che è perfetto”, non può che restare tale, è condannato a restare tale, dunque immobile. Ma Odetta è innamorata del divenire. Si guarda attorno e vede bene che è il cambiamento che ci fa vivere. Dato che ha fatto quelle letture, sa anche che proprio in ciò si evidenzia la grande contraddizione che la filosofia studia dalle sue origini a oggi: la contraddizione dell’essere, la sua impossibilità di “non essere”. Il bello di Odetta è che lei, invece di lanciarsi in sapienti disquisizioni, attraversa questi argomenti con molta leggerezza, direi persino con una punta di impudenza: per esempio, proprio a questo proposito, si permette di correggere Dante, di mettere addirittura in burla la presenza della musica così come Dante la descrive nel suo Paradiso. Insomma, il bello è che Odetta non è una filosofa e non si preoccupa affatto della sistematicità del suo pensiero: per questo può ragionare allegramente su un “essere” che può anche incontrarsi con il “non essere” e può immaginare l’uno e l’altro come saltimbanchi che fanno le capriole. Odetta è capace di rendere leggero e spregiudicato anche il ragionamento più profondo. Ma, appunto, non rinuncia alla profondità: la sua leggerezza è lontanissima dalla superficialità.

Le parole di questa signora dai capelli bianchi stupiscono per il loro grado di sincerità. Cosa fa essere Odetta così libera di confessare i suoi pensieri più intimi, fino a svelare il segreto di cui nessuno sa?
MT: Proprio i capelli bianchi sono il segno di una donna che non nasconde niente. Magari si fa fare un taglio alla , e ne gode, ma nessuna tinta artificiale: Odetta lascia fare alla natura. Ciò che la rende sincera e che la spinge a rivelare a uno sconosciuto il segreto della sua vita è tuttavia la sua voglia di conoscersi. Per conoscersi, per ragionare su se stessa, Odetta ha bisogno, come tutti, di qualcuno che ascolti il suo ragionamento. E questo qualcuno ha, per altro, le qualità adatte. Come ho detto prima, lo studente le rivolge le domande giuste per scatenare la sua ricerca introspettiva.

Signor Tortorici, dopo tanti anni dedicati alla poesia, questo è il suo primo romanzo. Cosa l’ha portata dal verso alla prosa?
MT: Scrivo versi da quando ero un bambino. E scrivo versi perché il mio modo di esprimermi ha bisogno di un ritmo. Da ragazzo ero uno scatenato ballerino di rock’n ‘roll. E infatti il ritmo è soprattutto nei piedi: lo sapevano bene i greci e i romani, che chiamavano, per l’appunto, “piedi” le unità ritmiche del verso. Il mondo io lo percepisco attraverso il suo ritmo e la poesia mi ha dato modo di esprimere al meglio questo mio modo di percepire il mondo. Qualcuno potrà anche dire che lo percepisco con i piedi: io non mi offendo; sono in buona compagnia perché tutti i poeti percepiscono il mondo con i piedi, nel senso che ho appena detto. A un certo punto, nella mia testa è nata, insieme alle immagini che cerco di esprimere in versi, quella di un personaggio che nei versi si sentiva un po’ stretto: Odetta. Ho subito pensato di rappresentarla in prosa e ho anche lavorato molto, in seguito, perché questa prosa fosse la più semplice possibile e avesse il carattere della quotidianità. Ma ho cercato, anche in questo caso, per abitudine, per vizio, di percepire il ritmo proprio di questo personaggio. Da qui il dialogo. E un dialogo che, con l’artificio di trascrivere per il lettore soltanto le battute di Odetta, si rivela trascinante: il lettore viene trascinato nella situazione in cui si trova la protagonista; a ogni “a capo” è portato a immaginare la battuta non trascritta dell’interlocutore e subito dopo a tuffarsi di nuovo in ciò che dice Odetta e a verificare se aveva immaginato bene. Per certi aspetti questo è lo stesso meccanismo che si mette in moto nella testa di un lettore di poesia in particolare quando due versi sono legati da un enjambement. Ma non voglio entrare in tecnicismi inutili: il fatto è che ho cercato di dare un ritmo anche alla prosa e che questo ritmo si rivela, così come io volevo e come mi confermano i primi lettori del romanzo, particolarmente coinvolgente. Insomma, la mia scrittura in prosa ha tratto giovamento dalla mia esperienza di scrittura in versi: esperienza che, tra l’altro, non si è certo interrotta nel periodo nel quale ho scritto il romanzo. Penso proprio che in questo 2014, o al massimo nei primi mesi del 2015, possa uscire una mia nuova raccolta poetica. 

Due perfetti sconosciuti
di Michele Tortorici
Manni Editori

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