Chiunque conosce la scrittura di Emanuele Trevi, sa come riesce a trasportare chi legge in viaggi che altrimenti sarebbe difficile intraprendere. E’ così anche nel suo racconto Senza verso. Un’estate a Roma, Editori Laterza, ambientato nella torrida estate del 2003.
Mentre chi può fugge dalla capitale arroventata per cercare un po’ di refrigerio, lo scrittore si aggira per le strade della città e nei suoi sotterranei.
Non in un unico verso quindi, ma com’è nel suo stile eclettico e imprevedibile, in più dimensioni, anche quelle del tempo e della memoria, forse le sole capaci di unire tra loro luoghi diversi: “Mi sono sempre chiesto se per ognuno degli infiniti frammenti in cui si scompone ogni angolo, ogni aspetto della realtà ci sia uno spazio, anche minimo e sepolto, di memoria.”
Cammina sui marciapiedi roventi tra Colle Oppio, il Colosseo e San Giovanni, Trevi, passando sotto il fogliame dei platani, tra vie ampie e trafficate che sbucano in angoli silenziosi. E’ felice, si sente in un posto suo, perché “per quanto illusoria e addirittura, in molti casi, pericolosa, la sensazione di essere ritornati a casa produce infallibilmente una specie particolare e inconfondibile di benessere.”
La sua è però un’impossibilità connaturata a fermarsi in superficie, e lo porta a scendere le scale di San Clemente, dove si trova l’affresco della leggenda di Sisinnio, prefetto di Roma, famoso per la colorita iscrizione “Fili dele pute”. Da lì accede al mitreo, scavato nella roccia perché simbolo del Cosmo, non delle tenebre.
Ma senza verso sono anche le poesie contenute nella raccolta Vampe del tempo di Pietro Tripodo, per sua stessa definizione. Il poeta romano, a cui diversi critici hanno ormai riservato un posto d’onore tra gli autori del Novecento, era amico di Emanuele Trevi. E’ stato lui a fargli conoscere gli affreschi ottocenteschi di un convento all’interno di Villa Massimo prima di andarsene prematuramente, lasciando in eredità una poesia capace di astrazione quanto di poggiare sulla cruda realtà.
Solo dopo un trasloco in via Berni, lo scrittore, affacciandosi al terrazzo della sua nuova casa, ha notato che la vista andava a Villa Massimo, e la memoria, inevitabilmente, a Pietro: “Nelle città accade sempre questo, che destini avversi e caratteri inconciliabili vivono gomito a gomito, mentre ciò che è straordinariamente simile, le anime gemelle e le tessere perfettamente combacianti del mosaico, non si incontrano mai, o quasi.”
“Perché si scrive?”, si chiede Trevi. Dopo tutto siamo già inondati di preoccupazioni, specialmente le persone come Pietro, un uomo “che aveva diviso il mare della vita in innumerevoli bicchieri d’acqua, tutti in tempesta.”
La scrittura – riflette l’autore – è per alcuni una necessità quasi fisiologica, che viene subito dopo il cibo. Ne sono testimonianza le scritte lasciate sui muri delle celle dai prigionieri, incise con una scheggia o con il manico di un cucchiaio, sapendo che quello sarebbe stato uno degli ultimi atti della loro vita, come si legge nell’ex carcere nazista di via Tasso, oggi Museo Storico della Liberazione di Roma: “ADDIO PICCOLA MIA NON SERBARMI RANCORE UN BACIO.”
Anche questo edificio è vicino a Villa Massimo.
Senza verso. Un’estate a Roma
di Emanuele Trevi
Editori Laterza