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Divorzio all’islamica a viale Marconi

Divorzio_allislamica_a_viale_marconi_art‘In fondo non ero felice del matrimonio in sé, ma dell’idea di venire a vivere in Italia: la Mecca della . Era un segno del maktùb’. Così pensa Safia al momento di sposare Said, giovane egiziano come lei e immigrato in Italia, ma il suo maktùb, il suo destino, le riserverà non poche sorprese.
A Roma il marito la costringe a portare il velo, ‘un semaforo davanti al quale la gente deve fermarsi’ nel periodo post -11 settembre. Il velo però, riflette Safia, non è uno dei cinque pilastri dell’Islam, che prevedono gli stessi doveri per gli uomini e per le . Perché allora non gli stessi diritti? Se in paradiso gli uomini trovano delle bellissime vergini, com’è l’aldilà delle donne?
E le donne che girano seminude, sono davvero libere?
E’ alla voce di Safia che Amara Lakhous, in Divorzio all’islamica a viale Marconi, edizioni e/o, affida il confronto tra due mondi, le parole di chi non vuole giudicare, ma capire.

Tra le righe si legge la storia di Lakhous stesso, che nato ad Algeri e in Italia da diversi anni, non si definisce né completamente algerino né italiano, e forse proprio per questo, riesce come pochi altri a osservare dall’esterno, realtà che conosce bene dall’interno.
‘Divorzio all’islamica a viale Marconi’ è una brillante commedia noir, dove le sfide della società attuale si chiamano immigrazione, integrazione, identità, e sono tanto assurde quanto reali.
Paragonato a Camus e a Gadda, Lakhous dice: ‘Penso che dovremmo rivedere la nostra definizione di identità. A me non interessa chi sei, ma cosa fai.’

amara_lakhous_artSignor Lakhous, Divorzio all’islamica a viale Marconi tocca dei punti vitali del rapporto tra occidentale e Islam, come la religione, l’uso del velo, il ruolo della donna. Il tono però non è mai né di condanna, né di approvazione, ma piuttosto quello di chi vuole conoscere entrambe le realtà. In questo senso è stato facilitato dal fatto di essere nato e cresciuto in Algeria, ma di vivere da tanti anni in Italia?
Sì, vivere tra due paesi, due cittadinanze, due culture, mi dà questa possibilità di osservare due mondi, e poi in realtà non appartengo né all’Italia al 100%, né all’Algeria al 100%, quindi mi trovo veramente in mezzo. Questo però per me non è uno svantaggio, ma un grande vantaggio. Tanti lo vivono come una condanna, una trappola, non si sentono né di qua, né di là. Io invece mi diverto, anche perché per me l’identità è una trappola, più la prendiamo sul serio, è più rimaniamo fregati.
Questi 15 anni in Italia mi hanno permesso, prima, di avere uno sguardo distaccato sull’Italia. Non essendo italiano, essendo una persona nata fuori, in un altro contesto, quando sono arrivato ho iniziato ad osservarla, poi, con il passare del tempo, studiando, imparando l’italiano, sto vivendo anche dei rapporti di amicizia con tantissimi italiani. Piano piano ho cominciato a capire questa realtà, e l’ho raccontata in Scontro di civiltà a piazza Vittorio ( il precedente romanzo di Lakhous, n.d.r.).
Un’altra cosa che non avevo messo in conto, è che dopo 15 anni ho elaborato una seconda distanza, quella con la mia cultura di origine. E’ stata una grandissima opportunità per me, di rivedere e rimettere in discussione alcune cose importanti che riguardano la mia società e la mia cultura di origine. In Divorzio all’islamica a viale Marconi ,attraverso il personaggio femminile mi sono cimentato in questa nuova avventura, raccontare il mondo arabo e la mia cultura. Questo è il vantaggio di vivere tra due culture.

Dice Safia: La prima domanda che ti fanno sempre è: come ti chiami? Se hai un nome straniero si crea immediatamente una barriera, una frontiera insuperabile fra il ‘noi’ e il ‘voi’. Il nome ti fa sentire subito se sei dentro o fuori, se appartieni al ‘noi’ o al ‘voi’.
In che modo si può arrivare ad essere parte di quel ‘voi’ senza dover rinunciare ad essere noi stessi?

Bella domanda, direi filosofica! Riguardo al nome, non succede solo agli stranieri, ma anche agli italiani. Se uno dice: ‘Mi chiamo Salvatore, Carmine o Carmelo’, sono nomi immediatamente identificanti . Io credo che ci sia una grande sfida, elaborare una nuova definizione dell’identità. Fin’ora noi ci siamo accontentati della domanda: ‘Chi sei?’ Se ti chiedo: ‘Chi sei?’, tu mi dici il mio nome è questo, sono cattolica, italiana. Sono tutte delle risposte ben fatte. Io posso dire che mi chiamo Amara Lakhous, sono algerino, mussulmano. Credo che bisognerà prima o poi aggiungere un’altra domanda: ‘Che fai?‘
A me di chi sei non interessa più di tanto, perché è attraverso il fare che possiamo capire a che identità apparteniamo. Io sono rimasto molto colpito quando è stato arrestato Provenzano. Sono rimasto colpito dal suo uso religioso. Cita la Bibbia, anche il suo linguaggio nei ‘pizzini’ogni tanto cita un versetto. Ecco, Provenzano si definisce cattolico.
Ora, mi chiedo, i fondamentalisti, i terroristi che hanno ammazzato civili in Algeria e altrove, si definiscono mussulmani. Anch’io mi definisco mussulmano, ma abbiamo dei punti in comune? No, non abbiamo punti in comune. Io ho più punti in comune con persone che magari appartengono ad altre religioni, però amano la letteratura, rispettano le donne. Su questo ci possiamo confrontare.
Se tu mi chiedi: ‘Che fai?’, allora apparteniamo alla stessa cultura, se tu invece mi dici: ‘Sono mussulmano e picchio la moglie’, allora siamo su due strade diverse. Secondo me su questo dobbiamo riflettere, su cosa vuol dire noi e cosa vuol dire voi. Dobbiamo elaborare dei nuovi criteri di identità, perché quelli della religione non reggono più, quelli linguistici neanche, perchè a volte chi arriva impara una lingua spesso anche meglio degli autoctoni. Rimane una questione di genere, ma anche su questo la psicologia ci insegna che il maschile e il femminile sono relativi. Secondo me è sul fare che occorre fare uno sforzo.

Safia porta il velo, e per questo vede aggirarsi intorno a lei fantasmi dal nome undici settembre, terrorismo, kamikaze, al-Qaeda, ma pensa: “In fondo, parliamoci chiaro, il velo è soltanto un pezzo di tessuto di pochi centimetri. Mentre la fede è un universo infinito”.
Fissarci su alcuni particolari non rischia di impedirci di vedere quello che c’è realmente dietro?

Sì, questo è il rischio. Lo stesso discorso vale per gli integralisti mussulmani o ebrei con le loro barbe lunghe. Io ho sempre guardato alla fede come una questione privata. Se non sbaglio c’è un versetto nel Corano, dove Dio fa l’elogio delle persone per bene e dice, riguardo a chi fa l’elemosina, che la loro destra non sa cosa ha dato la sinistra, cioè lo fanno in grande discrezione.
Io ho sempre guardato la vera fede e la vera religione con questa discrezione. L’esibizionismo mi dà molto fastidio, la fede è un’altra cosa, è un universo immenso, quindi misurare la condotta di una donna mussulmana attraverso il velo … Anche perché ci sono donne nel mondo mussulmano che portano il velo e poi agiscono come credono, oppure c’è chi porta la barba e poi truffa.

Safia, che tutti si ostinano a chiamare Sofia, ricorda che in arabo si dice ‘capelli metà-bellezza’, e di nascosto dal marito fa la parrucchiera, prendendosi cura delle chiome delle donne, secondo lei stessa ‘segreto della bellezza femminile’. Insomma, lei per prima si chiede perché si debbano coprire.
Sì. Io in questo romanzo mi sono messo nei panni di una donna. Ho cercato di raccontare una storia vista da una donna, mi sono ovviamente messo in gioco anche come uomo mussulmano,ed è stata una grandissima sfida mettermi in gioco.
La prima cosa che mi preme è la libertà personale, che è legata alla vera fede. Solo una persona veramente libera può vivere la sua fede nella sua pienezza, senza costrizioni. Safia combatte per questo. Lei è molto credente, ma fa una critica dall’interno dicendo che il velo non c’è nel Corano, che poi è una cosa vera, come la poligamia. Fa una critica dall’interno, che è la più forte, e arriva alla conclusione che il problema dell’Islam è che non abbiamo una interpretazione femminile. E’ solo maschile. Se prendiamo i grandi testi di interpretazione del Corano, le grandi scuole, sono tutti uomini. Così anche nella politica, se i politici sono uomini faranno delle leggi a loro favore. E’ scontato. Se invece ci sono delle donne ci sarà un grande contributo.
Lei fa tutta questa riflessione dall’interno. Partendo dai capelli ricostruisce il discorso sul velo e arriva alla grande questione della parità. Nell’Islam i doveri sono uguali. Sia gli uomini che le donne fanno cinque preghiere al giorno, un mese di Ramadan. I doveri sono uguali. Perché i diritti no?
Un’amica quando ha letto il libro ha detto che è un romanza femminista. Io ne vado fiero, sono molto orgoglioso, vuol dire che ho fatto un grosso lavoro su me stesso. Ma questo discorso sulle donne non riguarda solo le donne mussulmane. Ci sono delle statistiche che fanno veramente riflettere. Anche se le donne fanno lo stesso lavoro degli uomini, guadagnano di meno. In politica la cosa è alla luce del sole. La maggioranza dei votanti sono donne, ma se guardiamo la loro rappresentanza o la qualità delle donne che rappresentano le donne, è discutibile. Discutibile.

Il protagonista maschile, Christian, è un agente italiano dei servizi segreti, che parlando perfettamente l’arabo, si infiltra nella comunità araba di viale Marconi. Sotto copertura diventa Issa, giovane immigrato tunisino, e si può dire che si integri senza particolari problemi.
E’ un modo per dire che se non innalziamo un muro troppo alto, a difesa della nostra cultura, possiamo guardare e andare oltre?

Sì, certamente, la lingua è il primo mezzo. Lui riesce più che a integrarsi a infiltrarsi, ma anche io mi considero un infiltrato, nel senso che mi sono infiltrato, infilato dentro un’altra cultura, anche se ovviamente non ho un intento sovversivo. Nel suo caso, attraverso la sua padronanza della lingua, riesce a infiltrarsi in questa comunità diventando ‘tunisino’, e nessuno ha dubbi sulla sua identità, perché parla perfettamente l’arabo, è un moro mediterraneo.
Io credo che la lingua sia il primo elemento. Se uno impara una lingua mette veramente un piede dentro quella cultura, e riesce anche a guardare il mondo partendo da quella impostazione.

Divorzio all’islamica a viale Marconi, di Amara Lakhous
Edizioni e/o
Pagine 188 Euro 16.00

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