È un romanzo dal sapore autentico Quella casa sulla strada, della scrittrice romana Roberta Chialastri (PAV Edizioni). Ha il gusto aspro delle storie di emigrazione e insieme la dolcezza di una vecchia storia di famiglia.
L’autrice si rifà infatti ai ricordi della sua infanzia per raccontare la storia di Michele, uomo tormentato e intraprendente, della moglie Maria e della figlia Antonia.
Sono gli anni del secondo conflitto mondiale in un piccolo paese campano, tempo di bombardamenti e di distruzione. Per sfuggire alla fame a fine guerra il protagonista scappa con la sua famiglia a Roma, dove però la ricostruzione sarà un sogno tanto bello quanto doloroso, e il riscatto avverrà a caro prezzo.
Ha i tratti del racconto neorealista Quella casa sulla strada, dove la miseria del quotidiano ha il suono di dialetti lontani e il tempo è sospeso tra disillusione e speranza. La scrittura di Roberta Chialastri possiede grazia e immediatezza, non cede al sentimentalismo, e con questo romanzo ha ricevuto la menzione al merito al Premio Internazionale Letterario e Artistico “Giglio Blu di Firenze”.
Roberta Chialastri, da dove è nata l’ispirazione per raccontare la storia di Michele e della sua famiglia?
RC: Quella casa sulla strada è un romanzo memorialistico che fa parte dei miei ricordi personali. Una storia che mi fu narrata fin dall’infanzia e anche per buona parte dell’età adulta. Praticamente, fino a quando è vissuta la persona che me l’ha raccontata. Una storia gelosamente conservata dentro di me per molti anni, come un bene prezioso da preservare, fino a quando non ho ritenuto che fosse giusto scriverla proprio per “passare il testimone”, per “non dimenticare”. Perché come dico io stessa: “Il passato non deve mai cadere nell’oblio perché nel passato c’è un po’ della nostra storia di oggi.”
Quella casa sulla strada ha un’ambientazione storica molto dettagliata. Ci parla della Roma del secondo dopoguerra in cui arriva Michele?
RC: Michele con la sua famiglia arriva a Roma intorno al 1948, all’inizio di un dopoguerra che si protrarrà per qualche anno ancora, soprattutto in termini di povertà della popolazione. Tutta la famiglia, dopo un precario adattamento, si sistema in una piccola casa nel quartiere Tuscolano. È una zona della periferia di Roma dove miseria e degrado sono molto presenti. Registi e sceneggiatori del cinema neorealista attingono proprio da quelle zone per rendere testimonianza e descrivere, attraverso i loro film, la durezza e l’emarginazione della vita quotidiana di quei luoghi.
Attraverso la vita di Antonia e di sua madre Maria lei descrive il cambiamento del ruolo della donna negli anni ’50 e ’60. Quanto è stato importante?
RC: Io racconto, in realtà, un cambiamento culturale all’interno di un piccolo ambito familiare. Antonia non eredita da sua madre quel comportamento mite e quell’atteggiamento remissivo, tipico di una donna nata e cresciuta in un piccolo paese del sud, educata a obbedire all’uomo, padre o marito che fosse. Antonia ribalta la situazione della donna all’interno della sua famiglia. Fa un salto di qualità rispetto a sua madre, maturando, verso quel processo di emancipazione della donna, un atteggiamento aperto e disponibile in un contesto nel quale tardava ad affermarsi. Sua madre lavora, ma non è contenta, la necessità di doverlo fare la umilia. Antonia invece sceglie di andare a lavorare. Anche per lei è una questione di necessità, ma lavorare l’appaga. Antonia comprende presto che il lavoro, per la donna, è libertà e indipendenza anche dall’uomo. Lavorerà tutta la vita conquistando presto un suo proprio ruolo e una sua propria autonomia personale.
Nel romanzo lei fa largo uso del dialetto. Perché questa scelta?
RC: Utilizzare la lingua italiana piuttosto che il dialetto, mi sembrava poco coerente con l’idea di raccontare una storia vera, dove i protagonisti sono persone semplici che parlano in dialetto, così come anche le persone che gravitano intorno a loro. Per di più ho pensato che, anche al lettore, sarebbe apparso poco realistico. Quindi per dare una maggiore veridicità alla realtà quotidiana dei personaggi, ho preferito usare il dialetto campano, così come ho poi utilizzato, per altri personaggi, il dialetto romano quando, in seguito, la storia si svolgerà a Roma.
Cosa intende quando dei personaggi scrive che con questo libro ha “voluto riportarli a casa”?
RC: È molto doloroso, lasciare il proprio paese, la propria casa, i propri affetti soprattutto se si è costretti a emigrare. Ci si deve armare di tutto il coraggio possibile per fronteggiare, specie all’inizio, le difficoltà; mettendo spesso a dura prova la propria dignità che, ripetutamente, viene offesa, calpestata, vilipesa. E, a volte, in nome di un miglioramento sociale ed economico, che non è sempre così scontato, si rischia di perderla del tutto. Ieri come oggi. Per i protagonisti del mio romanzo, pur conservando un atteggiamento concreto e lucido di accettazione della nuova realtà, il rammarico prima e la nostalgia poi rimarranno all’interno del loro animo anche negli anni a venire. Tuttavia, affrontano con fiduciosa speranza la loro nuova vita preservando almeno, in parte, la loro dignità. Il mio riportarli a casa, è un voler restituire loro, seppure idealmente, quella piccola parte di dignità che comunque hanno dovuto barattare con la prospettiva di un’esistenza migliore.
Quella casa sulla strada
di Roberta Chialastri
PAV Edizioni
Roberta Chialastri è nata a Roma dove vive. E’ appassionata di letteratura e teatro. Quella casa sulla strada è il suo romanzo d’esordio, con cui ha ricevuto la menzione al merito al Premio Internazionale Letterario e Artistico “Giglio Blu di Firenze”.