Attesissimo, esce per Einaudi Il preside, dello scrittore romano Marco Lodoli. L’opera conclude un fortunato ciclo di romanzi – cominciato nel 1990 con I fannulloni – che l’altr’anno ha regalato ai lettori l’indimenticabile figura di Paolina.
Lodoli è l’autore di personaggi veri, intensi, che nel loro barcamenarsi nella realtà di tutti i giorni non smettono di bramare l’assoluto. Sono uomini e donne che rimangono sé stessi, sempre e comunque, e attraversando le periferie romane o affossati dalla burocrazia, vivono senza mai concedere al mondo la loro resa. Con loro si percorre la distanza tra la siepe e l’infinito, guidati da un racconto che offre momenti magici e angoli fiabeschi. L’impressione è che in loro compagnia nulla di male possa succedere, perché tra sogno e realtà, illusione e disillusione, essi sanno sempre vedere oltre.
Anche in quest’ultimo romanzo, dove il preside di una scuola sulla Casilina “laureato in greco, latino e ragnatele”, si barrica in un’aula tenendo con sé due ostaggi, la sensazione, più che da film americano, è quella di una mille e una notte romana. Pagina dopo pagina il flusso narrativo attraversa le terre della malinconia (quanti anni ho vissuto senza accorgermene), e si interroga (perché un uomo di sessantacinque anni sta facendo tutto ciò?), facendo de Il preside un’opera magicamente iperrealista e profondamente poetica.
Marco Lodoli, chi è l’uomo che si barrica dentro la scuola?
ML: E’ un personaggio un po’ donchisciottesco alla ricerca di una verità, che è poi il senso di tutti i miei libri: si può davvero imparare qualcosa alla fine? Ma è anche un uomo che si è reso conto di precipitare nel meccanismo della scuola, impersonale e anonimo, fatto di carte e competenze. Invece lui chiede rispetto per l’età dell’adolescenza, che è l’età della fiammata e dell’illuminazione. Si pone in modo provocatorio e anarchico, perché lui è così, è un artista.
Sceglie di barricarsi all’interno della scuola dove oggi è preside, ma dove un tempo è stato studente…
ML: Sì, la scuola diventa un luogo anche metaforico, e di quel luogo lui conosce tutto, anfratti, sgabuzzini e passaggi segreti. Sono luoghi quasi extra-temporali, perché c’è una componente metafisica nel libro, e la scuola diventa una rappresentazione della vita stessa. Il preside cerca di difendersi dall’assedio dell’assurdo, che sta fuori. Lui invece sta dentro, nel luogo della conoscenza del mondo e di noi stessi di cui lui conosce meandri, aule, corridoi. I passaggi extra-temporali poi lo portano in giro per la città, dalla madre morta. Il racconto è anche allucinato e onirico.
Professor Lodoli, come nascono le sue storie?
ML: Non mi interessa raccontare una storiella. Voglio che i miei libri abbiano una potenza evocatrice, quel passaggio dal tempo all’eterno, dal contingente all’assoluto, dalla cronaca al dentro. Deve esserci il transito tra l’attimo e l’eternità. Uno dei miei primi libri si intitolava Grande raccordo, come il G.R.A. intorno a Roma, proprio per l’idea di cucire, di legare tutto, ciò che è volatile e ciò che è assoluto.
Del protagonista del suo romanzo non si conoscerà però mai il nome, a differenza di tutti gli altri personaggi. Perché?
ML: Perché è una presenza quasi fiabesca. Lui è “il preside”, quello che dovrebbe guidare una scuola e invece è, come l’ultimo degli alunni e tutti gli esseri umani, un po’ allo sbando. Purtroppo da insegnante negli ultimi anni vedo che è cresciuto l’inscatolamento burocratico dell’insegnamento: moduli, griglie, programmazioni, carte da riempire. Questo preside invece ha nostalgia della scuola dei maestri, quelli che ti accendevano dentro una visione del mondo, e non trasmettevano soltanto delle capacità pratiche da spendere sul mercato.
E’ forse uno dei pochi a essere rimasto sé stesso, questo preside, e quindi viene visto come un tipo strano…
ML: Sì, vive il suo giorno di ordinaria follia. Crede ancora in quella meditazione dell’adolescenza su cos’è la vita, la morte, perché noi siamo qui, cos’è il mondo intorno a noi e dentro di noi. Non vuole perdere queste domande.
Il preside conclude un ciclo di romanzi con protagonisti “i poveri”. Chi sono?
ML: I poveri sono persone attraversate da una smania d’assoluto. Loro malgrado, perché spesso neanche lo vorrebbero. Non hanno cercato un’identità sociale, una ricchezza o una rispettabilità, e proprio per questo sono in qualche modo vicini a una santità, perché sono a contatto con la voce dell’universo.
“I poveri” vivono e si muovono per Roma…
ML: Sì, sempre per Roma, in tutti i dodici romanzi. In periferia e in città. Per me Roma è importantissima come teatro di queste storie, perché da un lato è la città della grande creaturalità della Morante e di Pasolini, delle storie di personaggi puri, poi dall’altro c’è la grande fantasia barocca, per cui Roma permette anche al mendicante di volare. C’è una fantasia dentro la città che non a caso ha espresso la cultura barocca o personaggi come Fellini. C’è una componente fantastica e visionaria della città.
Concluso questo ciclo di romanzi sta già pensando a un nuovo libro?
ML: Non mi sono mai sentito un professionista, anche se ho scritto tanti libri. Ho sempre scritto quasi mio malgrado, perché dovevo raccontare una vicenda, ma non ho mai pensato alla scrittura come a un mestiere. Fin che dura dura, ma quando non sentirò più la voce che mi chiama, finirà…
Marco Lodoli è nato nel 1956 a Roma, dove vive e insegna. Per Einaudi ha pubblicato, tra gli altri, la trilogia I principianti – comprendente I fannulloni (1990), Crampi (1992), e Grande Circo Invalido (1993); i romanzi Il vento (1996), I fiori (1999), La notte (2001), che fanno parte della trilogia I pretendenti; i romanzi Sorella (2008), Italia (2010), Vapore (2013), Diario di un millennio che fugge (1997); la raccolta di recensioni Fuori dal cinema (1999), e Isole. Guida vagabonda di Roma (2005), Snack Bar Budapest con Silvia Bre (2008), Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana (2009), Nuove isole (2014), Il fiume (2016) e Paolina (2018).