Ci sono libri che sanno cogliere lo spirito di un’epoca, catturarne i tratti essenziali e consegnarli alla storia, come l’ultimo romanzo dello scrittore Gino Pitaro, La vita attesa (Golem Edizioni), cronaca vivace e attenta degli anni ’90.
Pitaro racconta il decennio dei grandi cambiamenti attraverso gli occhi dei due protagonisti Gianni e Federico, che, all’epoca ventenni, – proprio come l’autore -, vivono un mondo in trasformazione.
Sono gli anni dell’entusiasmo – la caduta del Muro di Berlino, l’Europa unita -, ma anche delle delusioni, come la guerra in Jugoslavia. Figli degli anni ’90, Gianni e Federico lasceranno la loro Calabria per spostarsi prima a Roma e Torino e poi in Germania, liberi da confini territoriali e culturali.
Si serve della distanza di sicurezza del ventennio trascorso, l’autore, per narrare una storia personale che si fa generazionale, rappresentativa di un sentire comune bisognoso di bilanci, ma che mai cede all’amarcord. Saranno Gianni e Federico a tirare le somme degli anni passati, in un’avventura incredibile attraverso la nuova Europa, dove il nodo di un misterioso segreto del loro passato verrà sciolto separando per sempre i sogni di ieri dalla realtà del domani.
Gino Pitaro, La vita attesa è uno sguardo sugli ultimi anni della nostra storia. Sentiva l’esigenza di fare un bilancio?
GP: Ho avvertito l’impulso di parlare di realtà vicine e lontane, in particolare dei ’90, dalla prospettiva di un ventenne, quale io sono stato in quel periodo. I mutamenti, i cambiamenti che accadono in quegli anni pongono due prospettive, quella di narrare quel periodo con una specie di disillusione – a parte gli entusiasmi suscitati in tutti da Tangentopoli – e di chi ha vissuto quel periodo e i successivi con una costante onda di entusiasmo, da una prospettiva giovanile. Io ho scelto quest’ultima, fino adesso non frequentata, sia per scelta che per motivi anagrafici, forse perché quando si hanno vent’anni i cambiamenti sono visti e sentiti come una continua opportunità, mentre quando l’età avanza può subentrare l’esigenza di un riottoso adattamento. Il nostro poi è un paese dalla mentalità gerontocratica, dove si fa resistenza a certi cambiamenti, ma poi quando si verificano si guarda come a dei dinosauri coloro che non si sono adattati, che per qualche motivo non li hanno accettati. Negli anni ’90 c’erano colleghi e amici universitari che disprezzavano chi aveva un telefonino: sono gli stessi che oggi in tasca o in borsa hanno l’i-Phone. No, se si è artisti e scrittori o innovatori nel mondo i cambiamenti, e non principalmente quelli tecnologici, li si anticipa facendoli propri. Si diviene motore di cambiamenti. Chi crea lo fa perché c’è qualcosa che non c’è, altrimenti non crea. La Vita Attesa è un romanzo nuovo, ma al contempo occorre rammentare che nessuno inventa di sana pianta nulla, nessuno parte da zero.
Nel suo romanzo alla storia di un’Europa nascente si accompagna quella personale di Gianni e Federico. Come si intrecciano gli scenari?
GP: L’Europa è stata un grande motore nell’universo giovanile, stimolando ragazzi e ragazze di ogni nazione al contatto e all’interscambio. Era l’obiettivo da raggiungere dopo la caduta del Muro di Berlino, intendo che si doveva passare concretamente dall’idea della vecchia CEE alla UE. Una federazione di Stati uniti da comuni afflati, da tradizioni e intersezioni della Storia. Il Muro di Berlino cade e determina la caduta di un muro più interno, quello tra Irlanda e Regno Unito. Noi ragazzi ci sentivamo come sulla tavola da surf cavalcando un’onda, poi sono emersi altri problemi. L’Unione Europea, anche se imperfetta e pasticciona, ha globalizzato entro questo universo aspettative, problemi, spostamenti e immaginari, come accade ai ragazzi e alle ragazze del romanzo.
Gianni e Federico sono amici, vivono nel sud, a Tropea in Calabria. Il primo sceglie la via dell’università, quella accademica. Una serie di circostanze lo condurranno all’estero. Federico intraprende la strada in polizia. Emigrano dal loro territorio di origine. Oltre alle normali dinamiche della crescita che li allontanano, c’è un mistero che biforca ancora di più la loro esistenza. Il finale virerà sul noir-poliziesco-mistery europeo e transnazionale, conducendo entrambi su un comune binario, fino all’epilogo che scioglierà ogni nodo del passato e aprirà nuove prospettive. È chiaro che Gianni vive di più i cambiamenti che ci sono a livello politico (attivismo universitario, congresso della Bolognina, caduta del Muro di Berlino e delle ideologie), mentre Federico di più tangentopoli, l’omicidio di Falcone e Borsellino, il cambiamento tecnologico e informatico, che muta anche i metodi delle indagini. E poi ci sono gli amori, vissuti e agognati, che trasfigurano la loro esistenza. Ci sono scenari di guerra che turbano gli italiani. Durante la prima Guerra del Golfo i supermercati furono svuotati per la paura di un terzo conflitto mondiale, mentre con la guerra in Jugoslavia scoprimmo che i campi di concentramento erano a mezzora di volo.
In entrambi in casi i sogni e le speranze della giovinezza come vengono metabolizzate nel confronto con la realtà?
GP: Non è il solito romanzo di come siamo e come eravamo, della disillusione. È vero, le delusioni collettive e personali non sono mancate, ma a ben vedere sono state solo delle palestre per capire meglio le direzioni da intraprendere, hanno affinato la nostra sensibilità, i nostri mezzi intellettuali. Ci hanno fatto capire che tipo di problematiche sono in atto in profondità, ma in sostanza non c’è niente di più attuale di quegli anni: siamo in corsa, siamo dentro cambiamenti di più ampia proporzione. Si è certo acuita l’emergenza ambientale, ma molto più bello e stimolante esserci che il contrario. Nonostante poi il romanzo sia scorrevole, ho scoperto che obbliga il lettore a una certa immersione emotiva, non nel cogliere luoghi, eventi o citazioni, ma proprio nella dinamica della parola e degli eventi che conducono dentro il lettore, facendosi escavatori e orientando quest’ultimo a cercarsi nell’animo e nelle circostanze, nell’immergersi nel vissuto dei protagonisti. Dopo la mia buona affermazione con i tre libri precedenti non volevo scrivere un romanzo modaiolo, ma un testo vero. Anche qualche refuso, corretto per la ristampa, si fa rivelatore, mi ha dato entusiasmo. Un romanzo non costruito per assecondare i palati, magari con l’utilizzo di qualche programma informatico o consultazioni di più editor, ma che segue una precisa esigenza espressiva. Felice di piacere e anche di non piacere, perché chi piace a tutti non piace a nessuno.
Tra le città europee toccate dai protagonisti Roma che ruolo ha?
GP: Roma negli anni ’90 compariva ancora profondamente vendittiana e verdoniana, ammiccava già a volersi dotare di importanti hub culturali e guardava per alcuni versi a Parigi, quindi sono venuti il Maxxi, gli Auditorium e molto altro, dalla gestione e dalle dinamiche non del tutto apprezzabili. Roma è sempre stata viva, vitale, e lo è per alcuni versi di più in periodi di crisi civica e sociale come questa, in cui la nostra amata metropoli non riesce a trovare il bandolo della matassa a certi problemi. Roma uguale Amor, ma oggi nella capitale tutto quello che inizia con la ‘A’ è pernicioso, cavilloso, drammatico: Atac, Ama, Ater… E si ‘pasolineggia’, bene o male, a seconda dei casi.
Per i protagonisti Roma è uno snodo di interscambio, in qualche modo è sempre presente nel loro subconscio, anche se poi l’azione si svolge altrove.
Ci spiega perché la vita è “attesa”?
GP: Non ci avevo mai pensato a fondo prima di rispondere a qualche intervista. La Vita Attesa è naturalmente in genere da intendersi come qualcosa che si può concretizzare, come aspettativa, ma che appunto rimanda anche al concetto di ‘attesa’: la vita è attesa. Per il coronamento dei nostri sforzi, per il sogno di un mondo migliore. Non è attesa passiva, anche perché quella è stasi, invece i miei protagonisti si muovono parecchio, non solo in quanto ventenni, ma perché proprio il decennio che li tiene in grembo è mobile. Negli anni ’60 e ’70 in qualche modo i giovani sono stati motori di certi cambiamenti nella società, mentre nei decenni successivi questi piovono a iosa e chiamano tutti a conoscerli e ad interpretarli.
Sarà una citazione poco apprezzata in alcuni ambienti letterari, però ho scoperto che Terra Promessa – il brano di Eros Ramazzotti -, è la canzone più ripensata negli arrangiamenti e riproposta negli ultimi decenni e in questi ultimi tempi dal mondo della musica, anche in diverse versioni da parte dello stesso cantante. Siamo in viaggio, oggi più che mai. Un romanzo che può essere di buon auspicio per il 2020, come appunto sanno fare spesso bene – e quindi adempiere a premesse e promesse – i libri.
La vita attesa
di Gino Pitaro
Golem Edizioni
Gino Pitaro è nato a Vibo Valentia nel 1970 e vive a Roma. Ha lavorato come redattore, articolista freelance e documentarista indipendente. Nel 2011 pubblica I giorni dei giovani leoni (Arduino Sacco Editore), una delle opere underground più lette nel 2012. Con Babelfish, racconti dell’Era dell’Acquario (Ensemble, 2013), vince il Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basilicata III edizione. Nel 2015, con Benzine (Ensemble), vince il Premio Colli Aniene e il Premio Speciale della Giuria del Concorso Internazionale Scriviamo Insieme, VI edizione.