Potente. Così è il linguaggio di Aurelio Picca in Arsenale di Roma distrutta (Einaudi Stile libero).
Perché da una narrazione magnetica e intensa emerge una città che assomiglia a un animale mitologico, antichissimo e resistente al tempo. Nell’arsenale trovano posto il match tra Nino Benvenuti e l’indio Carlos Monzòn, le figure di Fellini e Albertazzi, i rapimenti Getty e Palombini, le notti sfrenate al Tube, le culle del Bambin Gesù e l’omicidio Pasolini.
Tutto comincia una domenica mattina. Picca è un bambino di tre anni, l’Appia è deserta e la luce di inizio estate colpisce ogni cosa, l’asfalto, i palazzi che sembrano scatoloni imbandierati di lenzuola stese ad asciugare. Lui non sa nemmeno che sia Roma, ma – scrive – “era una visione. Roma è sempre una visione quando decide di fermarsi smemorata. Di assentarsi dal mondo. Di cancellare il suo stesso passato.” Quel fotogramma si imprime nella memoria dell’autore e per un attimo ferma l’eternità, la meraviglia di una città che è come un antico console “maschio-femmina” col gladio in pugno.
E’ una città vissuta da dentro, dal basso, quella di Picca. L’autore non sa se dedicare il suo romanzo a Giulio Cesare o a Giorgio Chinaglia, il bomber della Lazio, perché – precisa – “li amo entrambi”. Macellari, strozzini, pesciaroli e verduraie animano una città che vive nelle sue rovine, “macera, frollata”, uguale solo a sé stessa e per questo unica. Impossibile da catturare, si può cogliere solo nei suoi frammenti di eternità, come durante la nevicata del ’56, cantata poi dalla voce roca di Franco Califano. E’ una città che da pura è capace di diventare “feroce e cadaverica”, come i tanti casi di cronaca nera che la scuotono: lo spaccio dei Marsigliesi, la scomparsa di Emanuela Orlandi, le rapine con la Magnum. Niente ha però a che fare col noir, col romanzo criminale degli anni successivi: è “carne viva” e sputa “bestemmie soavi” e un “dialetto aromatico”.
Un intreccio underground e un po’ pulp tiene insieme Arsenale di Roma distrutta. Criminali e artisti, con le loro vite maledette, cercano a loro modo l’assoluto, e per questo sono disposti anche a morire. Sono estremi e senza paura, tesi verso il profano i primi e verso il sacro i secondi, ma entrambi eredi di un mondo pagano. Niente a che vedere con oggi, con una Roma “piena di criminali in pantofole, inciviliti”. Quella di Picca è un’umanità derelitta e autentica, che vive in “una Roma violenta e invisibile; umida, con i segmenti delle rotaie del tram, con la forza animale di afferrarti, divorarti e risputarti sulla strada.” La sua scrittura è forte e diretta, a tratti anche brutale, ma poggia sulle basi solide dei maestri della letteratura, primo fra tutti Guy de Maupassant, che l’autore dice di amare molto. Simile è la voce corale, lo sguardo rivolto verso una realtà dove i dettagli sono co-protagonisti, l’attenzione per gli angoli più nascosti.
Unisce memoria personale e fantastico la prosa di Picca, in cui l’io-narrante si muove tra auto- biografia e metafisica. Poesia e realismo si fondono e restituiscono una “Roma giù, di cartapesta modellata a cupole, chiese, palazzi, colonnati”. La città ha una natura androgina, “una femmina un po’ maschio. Femminona o meretrice o transessuale”. Se quella di ieri era “plebea” e quella di oggi è “miserabile”, conserva comunque una forza vitale capace di andare oltre la decadenza e il declino. L’arsenale di Roma è distrutto, insomma, ma si sente che dalle macerie la città può rinascere, Fenice monumentale e eterna. Perché – scrive l’autore – è stata la donna della sua vita, e l’ha amata quando era plebea, non miserabile: “Roma era insuperabile davvero quando il cielo si faceva vergine e la plebe spariva… Scusatemi, è per l’amore che porto per Roma che non so trattenermi…”
Arsenale di Roma distrutta
di Aurelio Picca
Einaudi Stile Libero
Aurelio Picca è nato a Velletri nel 1960. E’ scrittore e poeta. Ha pubblicato, tra gli altri, la silloge Per punizione (Rotundo 1990), la raccolta di racconti La schiuma (Gremese 1992), e i romanzi L’esame di maturità (Giunti 1995, Rizzoli 2001), I mulatti (Giunti 1996), Tuttestelle (1998, Premio Alberto Moravia, Superpremio Grinzane Cavour), Bellissima (1999), Sacrocuore (2003), Via Volta della morte (2006), Se la fortuna è nostra (2011, Premi Hemingway e Flaiano), tutti per Rizzoli. Con Bompiani, Addio (2012), Un giorno di gioia (2014) e il poema civile L’Italia è morta, io sono l’Italia (2011).