Pollinésia è il paese dei polli, dei fessi, dei buoni a nulla. È una terra lontana parecchie miglia, oltre le montagne e gli oceani. Come ci siano arrivati i polli e che ci facciano non è dato saperlo. L’unica cosa certa è che Pollinésia è la terra dell’amore, un amore un po’ ottuso come ottusi sono i polli che ci vivono e covano le uova.
La prima ricognizione documentata risale al fin-de-siècle, quando il pittore Poll’ Gauguin vi si stabilì perché, testuali parole, “in Pollinésia c’è una luce diversa da Parigi; qui tra i polli ho trovato i colori più belli”. E da allora tanti pittori si sono appollaiati in Pollinésia per ammirare quei colori e magari cucinarsi un’omelette: Ginevra Marini è l’ultima in ordine di tempo.
Ispirata alle iscrizioni rupestri dei primi abitanti pollinésiani, Ginevra ha ricreato quei segni primitivi e li ha trasferiti su una parete enorme. Grezzi, citrulli e bitorzoluti, i figuri che ha dipinto appartengono a un’altra linea evolutiva: alcuni hanno il becco, altri i denti, alcuni le ali, altri le braccia storte. Tutti però hanno lo stomaco grande, il cuore equipollente e tentano sempre di spiccare il volo dalla contentezza (ma, si sa, i pollinésiani non sanno mica volare…). E poi ci sono anche idoli pagani, ricette non per tutti i palati, persino le tende degli indiani.
Ginevra Marini ci ha portato questo tesoro di antropologia aviaria su una barca di iuta spessa abbastanza. Una testimonianza che c’è un altro mondo da qualche parte, un mondo dove anche i polli possono andare a dormire senza finire in padella. Dove i polli ricchi e poveri, i pulcini e i capponi, tutti beccano lo stesso mangime. Dove c’è un’altra storia di quella che siamo abituati a masticare sui libri di cucina, senza più barriere e pollai.
Davide Minotti