Dopo 44 anni dall’uscita del film “I Pugni in tasca” di Marco Bellocchio, è giunto finalmente il momento della sua attesissima trasposizione teatrale, al Quirino di Roma dal 1 al 13 febbraio.
Perché sono trascorsi tutti questi anni? Il motivo, come ha spiegato lo stesso Bellocchio, sta nel fatto che il copione teatrale doveva avere degli elementi nuovi rispetto al film, delle idee originali che lo reinventassero un po’ e soprattutto che lo adattassero meglio alla realtà contemporanea.
Il tentativo di apportare qualcosa di diverso al film attraverso il teatro oggi è diventato concreto, grazie alla disponibilità e alla professionalità di una regista come Stefania De Santis, al cast interessante, tra cui spiccano Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista Marco), e al produttore Roberto Toni.
Il celebre film del 1965, per lo più un film manifesto anticipatore della contestazione sessantottina, ruota attorno ad una famiglia malsana e autodistruttrice ancorata al proprio spazio, chiuso e angosciante, dove i componenti del nucleo trascorrono il loro tempo senza pace.
Dunque un copione delicato che all’epoca ben rientrava nel contesto preannunciante il ’68 ma che oggi, a teatro, necessariamente deve abbandonare questo ruolo di rivolta, contro le istituzioni, la famiglia, la scuola e la religione, per incentrarsi maggiormente sul dramma della famiglia, della sua sopravvivenza e della sua totale assenza di amore.
La famiglia, come ricorderanno i seguaci del film di Bellocchio, era composta da cinque membri molto diversi tra loro ma attaccatissimi l’uno con l’altro: presi singolarmente non avevano ragione di esistere. Una madre cieca, ancorata ai ricordi e apparentemente buona; un fratello minore, affetto da ritardo mentale ed epilessia, tenero e indifeso; il fratello maggiore, l’unico per così dire “normale”; l’unica sorella, molto curiosa nei confronti della vita; e infine l’ultimo fratello, Alessandro, il protagonista, che vive particolarmente il disagio della famiglia in cui è “rinchiuso”.
In effetti si tratta di una famiglia-prigione, guidata da un’insostenibile situazione dettata dall’ossessione e dalla pazzia di una madre terrorizzante. Una gabbia dove predomina un deserto di affetti, senza prospettive per il futuro, del tutto immobile e fermo nella non speranza di guarigione e rinascita. Ogni figlio cerca a modo suo di andare avanti e sopravvivere; tranne Alessandro, il più folle, che esprime continuamente la sua rabbia, il suo odio, il suo dolore. A tutti gli altri fratelli viene imposta dalla madre la pazzia di Alessandro, imponendo loro sottomissione, rinuncia e sofferenza e obbligandoli a vivere come animali notturni che escono solo “quando il pazzo dorme”.
La storia di questa famiglia, annoiata e terribile, quasi da sembrare un manicomio, dovrà arrivare ad una svolta drammatica: quella di Alessandro che metterà in atto una sua fantasticheria. Perderà il controllo tanto da entrare in un vortice irrefrenabile che lo condurrà al delitto.
Leggendo tra le righe la drammatica storia di questa famiglia sarà come assistere ad un servizio al telegiornale che racconta l’ennesima tragedia per mano di una persona apparentemente normale che all’improvviso ha perso la testa e ha fatto una strage.
L’uscita di questo film destò molto stupore e fu subito scandalo. Perché non si era abituati a raccontare di una famiglia di “mostri”, devastata e senza valori. Una crisi epocale che sarebbe sfociata nel ’68.
Oggi questa famiglia approda in teatro riportando gli stessi silenzi, le stesse angosce e paure e sottolineando il lato “mostruoso” degli umani. Un plauso particolare ad Ambra e Pier Giorgio che ben comunicano il “buio del cuore e della mente”.